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A cura di Lucrezia Lombardo

"Il covid è una battaglia ancora aperta. Ma siamo destinati a vincere". Lavoro, sofferenza e speranza: la testimonianza di Tacconi

Il primario di Malattie infettive racconta le difficili giornate della pandemia e la capacità dei sanitari di gettare il cuore oltre l'ostacolo. E spiega quali sono le migliori armi a disposizione per combattere il Coronavirus: i vaccini

Il dottor Danilo Tacconi è primario del reparto di Malattie Infettive dell’ospedale San Donato di Arezzo e, insieme al suo staff, ha combattuto il Covid in prima linea, salvando vite e sperimentando direttamente la sofferenza di chi non ce l’ha fatta. “La battaglia contro il Coronavirus non è conclusa, ma alla fine ne usciremo vincitori”, con queste parole di speranza e fiducia, il Dottor Tacconi ci racconta cosa ha significato per lui -da uomo e da medico- affrontare la pandemia, una delle sfide più impegnative della nostra storia recente.
Da medico e da uomo, cosa ha significato, per lei, trovarsi in prima linea a fronteggiare il Covid e, dunque, una delle sfide più ardue della nostra storia recente?
“Non avrei mai immaginato di trovarmi in una situazione del genere come medico, sebbene all’università avessi studiato le pandemie -la Spagnola ed altre- e nonostante che l’OMS avesse dato notizia di possibili ritorni di tali fenomeni. Il Covid è stato un evento impensato per me, sia come professionista, che come uomo, ma, dovendolo fronteggiare, ha prevalso la professione: l’uomo Danilo Tacconi è stato messo in disparte, per lasciare spazio al professionista, che ha dovuto affrontare la pandemia assieme a tutto personale, allo scopo di contrastare l’imponente emergenza che ci ha travolti. Tuttavia, la differenza principale tra la prima ondata e le altre è che, dalla seconda ondata in poi, sapevamo chi era il nemico contro cui dovevamo combattere, mentre nel corso della prima ondata eravamo dinanzi a qualcosa di nuovo e gli unici dati che ci arrivavano, provenivano dalla Cina. Tutto quello che era stato scritto sul Covid ed ogni informazione ad esso relativa, era qualcosa che veniva da un altro continente, ma col tempo ci siamo fatti esperienza per contrastare l’epidemia e non demordere”.
Durante quest'anno travagliato, nel quale la pandemia ha spezzato vite e distrutto intere famiglie, quali sono le storie che l'hanno più toccata? Ci sono dei racconti di speranza di cui può farci dono?
“La speranza affiorava ogniqualvolta salutavamo i pazienti e li lasciavano tornare a casa. Sebbene la nostra professione ci abitui, più di altri, alla sofferenza, anche noi siamo uomini e donne fragili. Tra le esperienze più toccanti che hanno coinvolto l’intero reparto, c’era il dover comunicare ai familiari la perdita dei loro cari a distanza. Abbiamo dovuto fare fronte a ciò, in un contesto che ha stravolto completamente la modalità standard di comunicazione delle perdite: prima della pandemia potevamo confortare i familiari con un abbraccio, o con una stretta di mano, con il Covid non è stato più possibile. Successivamente, però, la possibilità di consentire ad alcuni familiari di visitare i malati, ha ridotto la sofferenza generale e anche noi medici, ed il personale sanitario tutto, abbiamo almeno potuto parlare con loro. Un altro motivo di sofferenza è stato vedere più membri di uno stesso nucleo familiare ricoverati, per esempio madre e figlio, o moglie e marito, e dover comunicare all’uno la perdita dell’altro, nella disperazione. Il reparto, tuttavia, ha lavorato sul supporto psicologico, sia nei confronti dei pazienti, che del personale. Uno psicologo clinico ha aiutato tutti noi a gestire le condizioni disagiate che abbiamo dovuto fronteggiare, e l’isolamento”.
Per molte persone -specie nella società odierna del benessere, che tende a rimuovere la sofferenza- la malattia ed il dolore sono "elementi" da cui rifuggire, a questo proposito, vorrei chiederle, qual è il sui rapporto con la sofferenza umana e come è possibile gestirla, senza lasciarsi sommergere da essa?
“Nessuno è preparato alla sofferenza. Ci accostiamo ad essa piano piano, ma preparati, non lo si è mai. Il tipo di mestiere che svolgiamo, tuttavia, ci predispone a dover affrontare il dolore. Il nostro obiettivo è cercare di far soffrire il meno possibile i pazienti, andando incontro ai loro bisogni, per soffrire meno anche noi. In ogni caso, affrontare la sofferenza non è mai semplice e spesso serve un aiuto anche per noi, specie in alcune situazioni”.
La sanità pubblica è davvero uno dei diritti più importanti che abbiamo, che necessita di essere tutelato e custodito. A questo proposito, quali sono, secondo lei, le faglie del nostro sistema sanitario che la pandemia ha messo in luce, e quali gli elementi che già funzionano, sia a livello locale, che nazionale?
“Il sistema sanitario italiano è uno dei migliori, sia qualitativamente, che assistenzialmente e lo è perché si basa sulla tutela del diritto alla salute , sull’integrazione socio-sanitaria, sulla valorizzazione degli attori della sanità tout court. L’articolo 32 della nostra Costituzione è una garanzia in tal senso. Anche se la qualità del sistema sanitario varia talvolta da regione a regione, l’impegno, da parte di tutti -dai direttori, fino agli operatori- è quello per provare a rendere più omogenea la qualità della sanità a livello nazionale. Nonostante la pandemia, siamo riusciti a fronteggiare l’emergenza, seppure con una maggiore fatica all’inizio, come tutti gli altri paese, del resto, dall’Inghilterra -che pure ha un buon sistema sanitario-, alla Francia, fino alla Germania ed agli USA.
Sia i principi che reggono il nostro sistema sanitario, che la risposta data durante la pandemia, a mio parere, sono eccellenti”.
A partire dallo scoppio della pandemia, assistiamo ad un fenomeno di cui molti sociologici e filosofi si stanno occupando, quello dei "medici impegnati in politica". Il ruolo dei professionisti sanitari è diventato, inevitabilmente, anche mediatico, poiché il dramma del Covid ha costretto l'intera società disorientata a rivolgersi ai soli che potessero, in qualche modo, offrire sicurezze: i medici, appunto. Si è quindi verificata una situazione nella quale il deficit di fiducia, che la popolazione nutriva da anni verso la classe politica, è stato "compensato" da altre figure. A tale riguardo vorrei chiederle, com'è cambiato, a suo parere, "il ruolo sociale" della "classe medica" a partire dallo scoppio della pandemia?
“Grazie alla pandemia i medici hanno avuto molta visibilità, lo dimostra anche la nostra intervista! Del resto, in certe situazioni, come quelle emergenziali, una comunicazione corretta è dovuta. Da un anno a questa parte, c’è stato però un certo protagonismo da parte di individui che si improvvisavano virologi, epidemiologi, mentre avremmo fatto meglio a ridurre questi numeri in tivù, perché simili fenomeni fanno perdere di credibilità alla nostra professione. Per quanto riguarda l’impegno dei medici in politica, credo che costoro siano uomini come tutti gli altri, a quali può magari essere affidato un incarico tecnico, che può risultare utile”.
Cosa dobbiamo aspettarci da qui ai prossimi mesi e quando si concluderà la pandemia, secondo lei?
“Il Covid mi ha insegnato a poter sconfessare quello che è stato detto il giorno precedente. Non è facile fare una previsione, potrei basarmi sui dati attuali: abbiamo delle recrudescenza di nuove infezioni in paesi vicini (Regno Unito, Spagna, Portogallo, Russia ecc) e, tuttavia, la vaccinazione spinta ha determinato un impatto sostenibile sugli ospedali. L’indicazione è senz’altro quella di proseguire con la vaccinazione (con un ciclo vaccinale completo), di continuare ad usare i dispositivi di igiene delle mani e di protezione, laddove manca il distanziamento, e poi valutare anche la possibilità che questo virus -come tutti gli organismi viventi- metta in atto delle strategie che gli permettano di trovare delle soluzioni a quello che l’uomo cerca di fare nei suoi confronti (per esempio alle vaccinazioni). Oggi, però, abbiamo senz’altro maggiori conoscenze sul virus, abbiamo a disposizione i vaccini, gli anticorpi monoclonali e, entro la fine dell’anno, avremo degli antivirali specifici. La battaglia rimane aperta, ma alla fine siamo destinati a vincere”.

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