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Arezzo da amare

Arezzo da amare

A cura di Marco Botti

Fonte Veneziana e la sua stipe votiva etrusca

Nell’area di Fonte Veneziana in epoca etrusca esisteva un santuario extraurbano. Ce lo conferma il ritrovamento del 1869 da parte di Francesco Leoni

Nel 1930 l’antica via di Staggiano, che dal borgo di Santa Croce conduceva alla località a est di Arezzo attraversando una campagna costellata di splendide dimore gentilizie, venne ribattezzata nel suo primo tratto via Fonte Veneziana e nella seconda parte via Francesco Redi.

Il primo segmento prende il nome da una fonte pubblica ubicata dove si concludeva l’acquedotto medievale cittadino, quello principale prima della realizzazione del cosiddetto Acquedotto Vasariano, inaugurato nel 1603.

Bisogna infatti ricordare che fin dall’epoca romana Arezzo era servita da una conduttura che incanalava l’acqua nell’Alpe di Poti. L’infrastruttura svolse a lungo il suo compito, ma alla fine del XIII secolo era ormai in semiabbandono.

Secondo Giorgio Vasari l’artista Jacopo del Casentino sarebbe stato incaricato, a metà del Trecento, di progettare un nuovo acquedotto, utilizzando in parte quello più antico. Nell’edizione delle sue “Vite” del 1568 il pittore, architetto e storiografo aretino raccontava che la condotta si concludeva proprio alla Fonte Veneziana.

Grazie a Ubaldo Pasqui sappiamo che nella facciata della fonte erano presenti lo stemma comunale e quello del podestà. Ancora il grande erudito, attivo tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, scriveva che in epoca medievale il manufatto era conosciuto come Fonte Guinizelli, dal nome dei proprietari dei terreni della zona. Vincenzo Funghini nello stesso periodo parlava invece di un’altra famiglia, i Venizzi. Dalla corruzione nel linguaggio popolare di uno dei due cognomi sarebbe venuta fuori la parola “veneziana”. La città lagunare, quindi, non c’entra nulla.

Sul lato della fonte, venendo dalla chiesa di Santa Croce, si trova una grande maestà dedicata alla Madonna di Loreto, le cui pitture sono in gran parte perse. Poco più avanti c’è lo sbocco di un’antica viuzza che parte dal cimitero di Arezzo, proprio nel punto di confluenza tra Via Gamurrini, via Sangallo e viale Buozzi. Dal 1951 è intitolata al poeta bolognese duecentesco Guido Guinicelli.

Se guardiamo dall’altra parte della strada, vedremo ancora il vecchio Sanatorio Garbasso, realizzato su progetto di Silvio Guidi tra il 1927 il 1933 per la cura della tubercolosi. A poca distanza fu eretto l’Ospedale Vittorio Emanuele III, costruito tra il 1914 e il 1925 su progetto di Guido Fondelli, demolito nei primi anni Duemila quando era ormai entrato in funzione a pieno regime l’Ospedale San Donato. Il Garbasso si salvò e divenne il nuovo Palazzo di Giustizia, assieme all’ala realizzata da Manfredi Nicoletti nel 2008.

Nell’area di Fonte Veneziana in epoca etrusca esisteva un santuario extraurbano. Ce lo conferma il ritrovamento del 1869 da parte di Francesco Leoni. L’antiquario aretino trovò nei suoi terreni delle strutture murarie a secco accompagnate da un deposito votivo arcaico, uno dei più ricchi mai ritrovati nell’Etruria Settentrionale, formato da circa 180 oggetti tra bronzetti, piccoli gioielli, esempi di “aes rude”, cioè una pre-moneta, e frammenti di ceramica.

Un articolo apparso su La Provincia di Arezzo del 27 giugno 1869, come ricorda Paola Zamarchi Grassi, dette per la prima volta un resoconto della scoperta di un luogo di culto affascinante, forse legato alle acque salutari. In questi siti venivano portati doni in segno di riconoscenza per una grazia ricevuta, per assumere un impegno o come augurio.

Il primo a indagare i reperti fu Gian Francesco Gamurrini, ma a lui seguirono molti altri studi che permisero di datare gli oggetti della stipe votiva tra il 540 e il 500 a.C.

La loro omogeneità e la tradizione nella lavorazione dei metalli di Arezzo fa pensare a una produzione quasi del tutto locale, aggiornata però alle nuove correnti artistiche, in particolare a quella ionica del VI secolo a.C. Ciò è riscontrabile nella cospicua presenza di “kouroi”, statuette maschili riproducenti giovani nudi con le mani lungo i fianchi catturati nella loro età migliore, compresa tra l’adolescenza e l’età adulta, e “korai”, statuette di ragazze con il caratteristico copricapo conico detto “tutulus”, che, superata la fanciullezza, si apprestavano a divenire donne. Tra i ritrovamenti di figure umane si ricordano anche un togato, una danzatrice, un lanciatore di asta e un aruspice dedito alla divinazione.

Se questi ex voto, assieme a quelli che raffigurano parti del corpo come mani, braccia, gambe, piedi, falli e occhi erano legati a questioni di salute e buoni auspici, la presenza di vari bronzetti di animali potrebbe invece indicare che il luogo aveva una frequentazione diversificata, come quella di allevatori e mercanti di bestiame. Tra gli esempi più noti abbiamo un cinghiale, due galli e una testa di cavallo.

Come accadeva spesso, dopo il rinvenimento gran parte degli oggetti andò dispersa ai quattro venti. Una serie oggi si trova al Museo Archeologico Nazionale di Firenze, quattro bronzetti laminari sono nel Metropolitan Museum di New York e un piccolo nucleo è ancora visibile nel Museo Archeologico Nazionale “Gaio Cilnio Mecenate” di Arezzo.

I tre musei assieme, purtroppo, accolgono un quinto di quello che fu ritrovato, il resto finì in collezioni private.

Del sito archeologico ritrovato nell’Ottocento oggi non si vede più nulla, mentre le parti della fonte medievale sopravvissute furono restaurate nel 2015 su iniziativa del Comune di Arezzo. Sotto l’egida della restauratrice Francesca Gattuso vennero consolidate le parti in muratura, pulite le superfici lapidee e ricostruite alcune porzioni mancanti. Il nuovo allacciamento idrico di Nuove Acque riportò infine l’acqua alla Fonte Veneziana.

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