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Il lebbrosario di San Lazzaro: le origini e la storia dell'ospedale fondato dal Comune di Arezzo

La parte iniziale di via Romana, compresa tra le località La Mossa e Pontalto, prende il nome di San Lazzaro dal nome del lebbrosario che qui si trovava a partire dal 1278

La parte iniziale di via Romana, compresa tra le località La Mossa e Pontalto, prende il nome di San Lazzaro dal nome del lebbrosario che qui si trovava fin dal XIII secolo. 

Fondato dal Comune di Arezzo e documentato a partire dal 1278, era l’ospedale meglio attrezzato per accogliere gli affetti dalla terribile malattia cronica causata dal bacillo di Hansen, che colpisce il derma, la mucosa delle vie respiratorie e i nervi periferici. L’entrata di un infettato nel lazzaretto aveva un carattere di cerimonia funebre, in quanto per la società il lebbroso era un morto vivente da cui tenersi a debita distanza. 

Quando la famiglia del malato non poteva permettersi le spese del ricovero, il Comune di Arezzo lo concedeva gratuitamente. I pazienti poveri di altri luoghi venivano invece sostenuti dal comune di residenza. 

Dagli Statuti aretini del 1327 sappiamo che il podestà, nel secondo mese del suo governo, riceveva i rettori della Fraternita di Santa Maria della Misericordia (o dei Laici) per farsi dare due “buoni uomini”. Entro un mese dalla loro elezione, essi dovevano visitare, assieme ai rettori, i quattro ospedali sotto la tutela del Comune, ovvero quello di Santa Maria del Ponte (o Sopra i Ponti), di San Lazzaro, di San Lorentino e di Mosolliolo. 

Gli incaricati constatavano la qualità dell’assistenza e della gestione del patrimonio, che riferivano al podestà e all’esecutivo dei Signori Otto, vecchio organismo che continuò a funzionare sotto la signoria dei Tarlati. 

A partire dagli anni Trenta del Quattrocento il lebbrosario aretino fu interessato da un generale rifacimento. A quel secolo apparteneva anche il loggiato, di cui sopravvivono oggi molti elementi nella facciata, come le sei arcate tamponate, parti di colonne con collarino a corda e resti di capitelli in stile ionico. All’interno del complesso uomini e donne vivevano in settori separati. C’erano inoltre la casa dello spedaliere e un oratorio per le funzioni religiose. 

Dal XVI secolo l’Ospedale di Santa Maria del Ponte visse una grave crisi finanziaria. Per incrementarne le entrate, il Comune tentò a più riprese di interrompere l’attività del lazzaretto, con l’intento di devolvergli il patrimonio.

Nell’aprile 1582 e nel giugno 1603 alcuni medici furono inviati a verificare le condizioni di salute dei ricoverati ma nei rapporti confermarono di aver riscontrato i segni della lebbra e non fu possibile chiudere. Lo stato di difficoltà del nosocomio principale si acuì nei primi decenni del XVII secolo. Il 3 dicembre 1623 l’accorpamento delle due strutture ospedaliere andò in porto e il San Lazzaro, ormai privo di lebbrosi, si trasformò in convalescenziario per i dimessi dagli altri ospedali, ma utile anche per isolare i malati durante le epidemie.

Il Lebbrosario di San Lazzaro

Nel 1636 la chiesina del lazzaretto fu impreziosita da opere di Bernardino Santini, di cui sono rimaste due tele. Il primo dipinto raffigura la “Resurrezione di Lazzaro”, mentre l’altro rimanda al celebre episodio francescano della “Cacciata dei diavoli da Arezzo”. Particolare interessante è la veduta cittadina sullo sfondo, dove spiccano i ruderi del Palazzo del Popolo, realizzato tra il 1270 e il 1278 in cima all’odierna via dei Pileati e smantellato nel 1539. 

Nella prima metà degli anni Ottanta del XVIII secolo le tele furono trasferite nella chiesa dell’Ospedale di San Maria Sopra i Ponti e collocate ai lati della “Pietà tra i Santi Donato vescovo e Stefano protomartire”, sempre del Santini. Con il trasloco del 1925 del nosocomio in via Fonte Veneziana, le tre opere cambiarono varie sedi. Dal 2012 sono custodite e visibili nel Museo della Fraternita dei Laici di Piazza Grande.

Nel Settecento si tentò di scongiurare l’alienazione dell’ex lebbrosario e del suo oratorio, considerati da tempo “inutili e di niuno uso”, ma il 29 ottobre 1784 il San Lazzaro  fu acquistato dai Dini per 530 scudi. Lo stemma della famiglia, connotato da un albero di pino “sradicato al naturale”, è visibile sopra l’ingresso principale. 

Il sacerdote Antonio Dini, come recita l’iscrizione in un architrave, fece realizzare nel 1819 una nuova chiesetta. 

Nel 1850 l’edificio passò alla famiglia Gudini, tuttora proprietaria dell’immobile, e trasformato in centro per la lavorazione di cereali e sementi. L’attività fu portata avanti per generazioni fino a pochi decenni fa.

Nel 1870 l’oratorio dell’ex ospedale risultava intitolato alla Madonna del Buon Consiglio e Divina Maternità. Fino al 1998, in accordo coi Gudini, vi celebrava la messa il prete della vicina parrocchia di San Marco alla Sella. 

Il 23 maggio 2004 una statua policroma di primo Cinquecento, raffigurante la Vergine con il Bambino, fu trafugata. Era attribuita ad Agnolo di Polo, scultore fiorentino allievo di Andrea Verrocchio.

Nonostante i rimaneggiamenti avvenuti nei secoli, e la perdita del suo patrimonio artistico, all’interno dell’ex lazzaretto affiorano ancora aspetti interessanti, come due architravi in pietra con emblemi scolpiti. In quello del piano terreno, parzialmente occluso, si riconosce lo stemma del popolo aretino: una croce d’oro su campo rosso. 

L’ex lebbrosario caratterizza ancora oggi, con la sua mole, via Romana. Delle vicende che l’hanno contrassegnato, tuttavia, gli aretini hanno perso la consapevolezza. Recuperare la sua storia contribuisce a ricordarne il ruolo nel sistema sanitario fino al XVIII secolo e a valorizzare quella che è stata la “porta d’ingresso” alla città prediletta dai viaggiatori del passato, compresi quelli che fino all’Ottocento inserivano Arezzo nel circuito del Grand Tour

Come scriveva Giovan Battista Ristori nel 1871, infatti, a coloro che transitavano davanti all’antico Ospedale di San Lazzaro la città mostrava un “bellissimo e grandioso aspetto, soggetto di magnifica fotografia”.

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