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A cura di Lucrezia Lombardo

BLOG | Intervista al “più decadente dei poeti contemporanei”

Paolo Pera a tratti s’ispira a Guido Gozzano, dando forma a versi carichi d’ironia e malinconia

Uno dei poeti più interessanti della nuova generazione è senz’altro Paolo Pera, che ho avuto il piacere di conoscere durante il Festival Ariel, legato al prestigioso premio ligure “LericiPea”. Durante le serate ho potuto dialogare con l’autore, approfondendo i tratti della  sua ricerca artistica. Pera è infatti definibile come “il più decadente dei poeti contemporanei” e a tratti s’ispira a Guido Gozzano, dando forma a versi carichi d’ironia e malinconia. Piemontese, Pera incarna in sé tutta l’eleganza aristocratica savoiarda, sulla quale ama scherzare.

Per comprendere meglio il suo universo poetico, assolutamente originale, abbiamo deciso d’intervistarlo.

Vi è chi ha paragonato la tua scrittura, così ricca d’ironia e simboli, a quella di Guido Gozzano, ti riconosci in quest’analogia e, in caso affermativo, quali sono gli elementi della poetica gozzaniana che più ami?

“ Anzitutto grazie per avermi voluto in questo tuo spazio e complimenti per il colore dei tuoi capelli, da vera Raperonzolo! Per giungere a me, invece, direi di sì. Gozzano si sente nel mio canto, sebbene altri abbiano guardato alla mia ironia come a quella di Palazzeschi (penso a Mario Marchisio, il mio primo maestro tecnico), oppure Chiara Catapano che ritrova in me Giovanni Boine. La verità è che sono prismatico, come credo un po’ tutti; un altro grande tassello della mia formazione fu Ezra Pound, da cui traggo un che di epico (talora anche politico), e pure il metodo del “collage” che mi capita di usare, sebbene veicolato dall’opera di Franco Trinchero (un altro mio grande maestro), mentre ultimamente riscontro un “moto ondoso” che credo di ereditare da Silvio Aman. Di Gozzano, che dire?, credo di amare anzitutto quel suo “fingere non fingendo” (che pure vedo in Pessoa), il fatto che con leggerezza tratti la drammaticità della vita, con fare appunto (auto)ironico, trasognato e un po’, nichilisticamente?, rassegnato… A tal proposito Trinchero ebbe a scrivermi: «Gozzano è per te un po’ la filigrana, ma in te il nichilismo sconsolato del bel Guido (da Bàrberi Squarotti visto come licenza giustificata dalla certezza della morte prossima) entra in dialettica con risentiti émpiti di perfezionamento morale, di analisi e ascesi». Altri parlano della mia come di un’epica dell’antieroe, eppure credo che vi sia qualcosa di eroico a “ridere nel pianto” (come cantavano alcuni), nel tragicomico. Chi fu più eroico di Don Chisciotte? E di Ezra Pound? Proprio non saprei…”

Puoi parlarci brevemente delle tue pubblicazioni e del percorso di ricerca artistico-letteraria che ti ha condotto sin qui?

“A parte un romanzucolo che pubblicai a quindici anni, che vorrei riscrivere prima o poi (io sempre sono tentato di riscrivere quel che faccio, in eterno… in un verso dicevo «da limare finché vivo»), l’esordio in poesia fu nel 2020, con La falce della decima musa (Achille e La Tartaruga), presto lettera morta grazie al “coviddi”. Si trattava del resoconto delle depressioni che vivevo nella mia prima età adulta: senso d’estraneità, delusioni d’amore, inettitudini varie, fobia della morte per fobia della vita, etc. Alcuni parlarono di un “Corazzini sottilmente giocoso”, eppure sotto quel pianto v’era la meditazione d’un essere per la morte che infine mi convinse a vivere. Seguì una riscrittura del Pierino Porcospino di H. Hoffmann, l’intento era macabro e, appunto, giocoso, l’ispirazione venne dalle Poesie macabre per l’infanzia del Marchisio, volevo esibire un po’ quel che fui da fanciullo, una piccola peste, per dire in breve. Quest’ultimo libro lo sto ora riversificando in ottonari, la Falce invece sarà presto riedita con un nuovo titolo e un miglior impianto compositivo. Venne quindi il dittico per Ensemble, Pietà per l’esistente (2021) e Pena di me stesso (2022), anche questo voleva narrare neppur troppo larvatamente un po’ di me (parliamo tanto di me, à la Zavattini, no?): se la Pietà (per la quale Giovanni Tesio ebbe a darmi scherzosamente dell’Erostrato…) veniva a comporsi di satire “a destra” su Papa, immigrazione clandestina, fatti evangelici, femminismo becero, “moda degli sfregi” (come io la chiamo, ossia i tattoo e i piercing), etc., questo per esibire un sentimento della compassione presente ma non sopportato e dunque autocastrato nello sprezzo e nell’irrisione, la Pena invece intendeva mettere alla gogna le deficiente del poeta (me medesmo…), decostruendone le sfumature narcisistiche in un percorso ascetico segnato dalla richiesta di un segno di Dio. Ora vorrei pubblicare presto un libro della “prima maturità” dopo questi, ma comporlo è cosa grave.”

Da filosofo e collaboratore per alcune importanti riviste letterarie, vorrei chiederti come valuti lo stato attuale della poesia italiana.

“Una volta me ne crucciavo ma ora non più. Io seguo la mia via, tra decadentismo e un romanticismo poco convinto, ironia e senso tragico, esistenzialismo e, sempre, e necessariamente, eleganza formale… Questo mi dà pace e mi compiace. Spesso leggo ovazioni per robine sciape e rimango perplesso, dico robine fatte da giovani più o meno della mia età e no, mi domando allora se questi siano stati capaci di intercettare un certo tipo di gusto corrivo o se, invece, sia l’attuale “pubblico della poesia” (per citare Berardinelli) che vuole leggere qualcosa che né suona né significa. A quel punto mi deludo un po’ della realtà (l’esistente…), e mi chiedo se davvero v’è chi trova il Tutto in ciò che non dice? Oppure sono io che non intendo? Eppure, qua e là, capita di scorgere gente brava per davvero (ultimamente ne ho consciuti alcuni ad Ariel LericiPea Giovani, naturalmente Giuseppe Conte, da vero intenditore, non poteva non individuare personalità con una loro autorevolezza artistica in divenire…), e questo scalda il cuoricino arso dal troppo piangere. E, io credo, che intorno si è perso il senso del fare Arte, ma che ci vogliamo fare? Dopo il secondo ’900 artistico (e gli anni odierni) la poesia non poteva mica non adeguarsi, non è vero?”

Infine vorrei domandarti come concili la ricerca poetica con la tua formazione filosofica e quali sono i prossimi progetti a cui ti dedicherai.

“La filosofia ha coltivato numerosi aspetti, già insiti da sempre nella mia personalità, che trovano quindi terreno fertile nella versificazione. Ovvio è, come una volta non capivo, che non si può fare una poesia di ragionamento (à la Instapoet, ragionamenti banali quando non idioti, i loro, eppure così graditi, ahinoi… che triste fine, o che triste inizio, per la beata gioventù che ne fruisce…). La poesia gioca di sfumature, di opacità, e questo le dà una ‘parvenza’ lirica. Ormai non so più guardare con favore a nulla che non sia chiaro e nebuloso insieme, la troppa chiarezza non abbaglia ma ammoscia, mentre la troppa nebulosità è solo il pretesto per fingere di significare qualcosa che non si è affatto (auto)compreso, ipotizzo, (eccezion fatta forse per Nanni Cagnone, lui sì che è un maestro nel creare una buona nebbia sulla pagina). Insomma, è un gioco di equilibri il rendere (e dico rendere) poesia qualcosa che ci volteggia nel pensiero, occorre pratica e tanta bottega, ma mai rinunciare alla cantabilità, alla rima occasionale (non necessaria!) e, possibilmente, alla metrica.”

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