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La cappella Dragomanni in San Domenico, dove trovare gli hipster del Trecento

È uno dei cuori magici della basilica domenicana. Capolavoro in pietra della scultura gotica e unica tra quelle laterali sopravvissuta dopo gli interventi di ripristino stilistico

Quando si entra nella basilica di San Domenico l’attenzione viene subito calamitata dall’altare maggiore, dove troneggia il “Crocifisso” di Cimabue, ma la chiesa è uno scrigno infinito di tesori per chi ha voglia di cercarli. 

Le sue pareti, centimetro dopo centimetro, documentano infatti la presenza di artisti aretini, fiorentini e senesi che, soprattutto nel Trecento, hanno lasciato importanti testimonianze. In molti casi sono ormai quasi illeggibili, in altri casi, per fortuna, sono ancora ammirabili e necessiterebbero solo di un’adeguata valorizzazione.  

Sul lato destro la Cappella Dragomanni è uno dei cuori magici della basilica domenicana. Capolavoro in pietra della scultura gotica e unica tra quelle laterali sopravvissuta dopo gli interventi di ripristino stilistico che, sotto l’egida di Giuseppe Castellucci, tra il 1914 e il 1926 eliminarono gli altari di varie epoche presenti nell’edificio, l’opera fu voluta dalla nobile famiglia che aveva in Castiglion Aretino, oggi Fiorentino, il suo principale luogo di riferimento. 

Va tuttavia ricordato che la cappella viene spesso collegata anche ai Dragondelli, famiglia di ceramisti di origine fiorentina attiva nel XIV secolo pure ad Arezzo. Gli storici dell’arte continuano a discutere su chi aveva patronato nel luogo, senza arrivare ancora a una risposta certa.

Gli splendidi draghi alati rossi presenti sia nelle “transenne” della zona inferiore, sia in alto, fanno ovviamente riferimento a chi – Dragomanni o Dragondelli – commissionò l’opera. 

L’autore è invece Giovanni di Francesco Fetti, scultore fiorentino tra i più apprezzati della sua epoca, protagonista fin dagli anni Cinquanta del XIV secolo nel cantiere del duomo di Firenze, di cui diresse anche i lavori dal 1377 al 1382, come ricorda lo storico dell’arte Aldo Galli. Questo mandato può essere utile per datare l’elegante cappella aretina, realizzata tra i primi anni Sessanta del Trecento e l’affidamento dell’incarico fiorentino.

L’opera scultorea è coronata da tre statue a tutto tondo. Quella al centro mostra “Cristo benedicente”. Nelle piccole volte si ammirano invece “I quattro evangelisti” affrescati da Luca di Tommè, di cui parla Giorgio Vasari nell’edizione del 1568 delle sue “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori” indicandolo come discepolo di Barna Senese e attribuendogli anche una tavola con “San Donato che prega davanti al Crocifisso”.

La cappella Dragomanni

L’artista e storico dell’arte aretino nel Cinquecento vedeva quest’ultima sopra la mensa dell’altare della cappella, da dove fu rimossa nella prima metà del Novecento. Oggi è però riconosciuta come opera dell’aretino Giovanni d’Agnolo di Balduccio, realizzata agli inizi del Quattrocento.

Al centro si può così di nuovo ammirare la “Disputa tra Gesù e i dottori nel tempio” di Donato e Gregorio d’Arezzo, episodio tratto dal Vangelo di Luca. Il dipinto è precedente alla realizzazione di Giovanni di Francesco Fetti e faceva parte di un ciclo di affreschi dedicati all’infanzia di Gesù, che con l’addossamento dell’altare trovò un’ideale cornice.

Gregorio e Donato di Arezzo furono due prolifici pittori aretini della prima metà del Trecento, individuati a inizio Novecento negli archivi coi nomi di Goro di Manno (Goro è il diminutivo di Gregorio) e Donato di Rigo

I due erano in società e furono attivi anche nell’Alto Lazio. Le loro opere sono ammirabili a Tuscania, Viterbo, Montefiascone, San Martino al Cimino fino a giungere a Bracciano. La presenza negli anni Dieci del XIV secolo nella Tuscia viterbese e romana fu fondamentale, perché permise di esportare in quelle zone il linguaggio giottesco ammirato e assimilato ad Assisi. 

Cosa li portò ad aprire una bottega laziale non è stato ancora chiarito. C’è chi propone come motivo principale il rapporto che intercorreva tra famiglie ghibelline aretine e viterbesi nei primi decenni del Trecento.

L’affresco di San Domenico, fu eseguito dopo il ritorno in patria dei pittori, documentati di nuovo stabilmente ad Arezzo dal 1321. Lo si nota dal linguaggio aggiornato: il protogiottismo che i due portarono avanti per tutta la carriera non è infatti più quello legato alla fase giovanile di Giotto osservata nel cantiere assisiate della basilica di San Francesco, ma quello straordinariamente maturo che si riscontra dopo l’impresa padovana per la Cappella degli Scrovegni.

Nota a parte la meritano i dottori barbuti ai lati del piccolo Gesù, che ricordano curiosamente gli hipster dei nostri giorni, ovvero i seguaci della subcultura anticonformista nata a metà del secolo scorso negli Stati Uniti, ma che negli ultimi quindici anni è tornata in auge anche in Italia. 

Tra le caratteristiche del look della nuova generazione hipster, infatti, ci sono anche i baffoni e la barba lunga e folta, che rimanda a quella dei pionieri americani dell’Ottocento o, senza andare oltreoceano, ai personaggi della cappella trecentesca di San Domenico. Senza prenderci troppo il serio, andate a osservarli e poi dite che non avevamo ragione.

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