Mato de Guera in scena sul palco del festival del teatro spontaneo
Spettacolo toccante e potente quello in scena alle ore 21,15 presso il Csa Fiorentina Via Vecchia, 11 in occasione della XXIV eizione del Festival Nazionale di Teatro Spontaneo.
Mato de Guera è un testo in dialetto veneto di Mozzocato sulla prima guerra mondiale, interpretato dal grande Luigi Mardegan, sotto la sapiente regia di Cuppone. La cosiddetta Grande Guerra serve come spunto per una analisi della guerra tout court e sulla sua inutilità. Ambientato a Treviso (per la precisione in una stanzetta del manicomio di Sant’Artemio) alla metà degli anni Trenta, discende con evidenza dalla grande tradizione letteraria veneta e in particolare dai parlamenti di Bilora e Ruzante. Ma vi si avverte anche, ad esempio, la lezione di Teofilo Folengo/Merlin Cocai che guarda con disperazione non rassegnata al mondo degli umili e degli sfruttati.Il fante Ugo Vardanega, originario di Possagno, è approdato da tempo nel centro storico di Treviso dove, a due passi dal portico dei Buranelli, vende la sua povera mercanzia su una scalcinata bancarella. È uscito dal primo conflitto mondiale con la mente sconvolta dall’orrore del conflitto (ma anche, come si dirà, con un peso terribile e inconfessabile sull’anima) e la sua vita di reduce folle/saggio si divide tra la sua miserabile attività commerciale e i ricoveri forzati al Sant’Artemio, quando la sua follia riaffiora in maniera incontrollabile..Anni Trenta: verso la metà di quel decennio che corre verso il secondo conflitto mondiale, dal suo piccolo osservatorio popolare Ugo si rende conto che sulla pelle di tutti i suoi compagni morti sul Grappa e sul Piave si sta consumando l’ultima, ignobile speculazione. Sono questi infatti gli anni in cui si costruiscono i grandi ossari.Già, non alla fine della guerra 15-18, ma venti anni dopo. Dunque non per pietà e riconoscenza verso tanti ragazzi morti, ma per sostenere la retorica della nuova guerra che si sta preparando. Ugo vede passare i camion carichi dei contenitori pieni di ossa e le pietre destinate a costruire gli ossari: non regge e scoppia.Riaffiora in lui terribile la memoria della guerra. Combattuta su due fronti, come dice ad un certo momento: perchè c’era da guardarsi dal nemico, ma anche dalla stupida intransigenza di uno stuolo di ufficiali italiani boriosi e impreparati. In questo contesto il tempio del Canova di Possagno diventa, nel ricordo del reduce, metafora e simbolo. Lì passava il fronte e nella distruzione della bellezza, della cultura, del patrimonio religioso travolto dalle bombe e dai proiettili di cannone è l’immagine di un tracollo epocale. Con tutte le sue miserie umane. Il secondo fronte: spesso gli ufficiali italiani per ottenere disciplina angariavano i propri soldati ogni oltre limite. Ugo, in un momento di acuta pazzia, si lascia sfuggire che lui e un suo amico (del cui suicidio ha appena avuto notizia: altra vittima del peso insostenibile della memoria) uno di quegli ufficiali lo hanno ucciso prima che si lanciasse all’attacco fuori della trincea. Mato de Guera getta uno sguardo anche sui profughi che si disperdono in mille rivoli in quel continente sconosciuto che è l’Italia: nemmeno sanno quanto sia lunga e scoprono alla fine (i profughi di Possagno approdano in Sicilia)che è “lunga una settimana di treno”. E sui prigionieri che non tornano.Alla fine Ugo Vardanega si fa consapevole di essere affetto da una malattia incurabile: la memoria. E allora decide di ricordare tutto, senza infingimenti, senza fughe nella follia, in una lucida disperazione che sarà il suo fardello per tutta l’esistenza