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Hip Hop 4 Peace, IV° ed ultimo giorno. "La strada che unisce Tripoli a Beirut è disegnata dal Mediterraneo"

di Marco Picinotti “Prendimi per mano e aiutami a sperare, perché è meglio sbagliarsi nella speranza che avere ragione nella disperazione”,  è Amin Maalouf, uno dei più celebri autori libanesi contemporanei. Poche parole, per raccontare un...


di Marco Picinotti

“Prendimi per mano e aiutami a sperare, perché è meglio sbagliarsi nella speranza che avere ragione nella disperazione”, è Amin Maalouf, uno dei più celebri autori libanesi contemporanei. Poche parole, per raccontare un paese, quello che è stato e quello che dovrebbe diventare. La guerra civile è iniziata il 13 aprile del 1975, di domenica, con un massacro di palestinesi a Beirut. Una guerra finita quindici anni dopo, ma solo a metà. Il conflitto, le cause, l’odio, le parti, si sono trasformate, silenziose, nel sottosuolo, disorientando, oppure creando convinzioni granitiche. Le peggiori per un paese in conflitto.


La strada che unisce Tripoli a Beirut è disegnata dal Mediterraneo. L’unico lato di confine pacifico lungo il profilo del Libano. E il conflitto lo vedi anche da quella strada, cambia il paesaggio, cambiano le persone, si distendono i volti, per poi rincupirsi poco dopo. Attaccati lungo un promontorio alle porte di Beirut, le targhe messe lì da tutti i conquistatori della sua storia, dalla Mesopotamia in poi: il martirio di una nazione, l’ha chiamato Robert Fisk, il giornalista che per primo raccontò il dramma di Sabra e Chatila.


E’ proprio là che stiamo andando col nostro van. Nel campo profughi palestinesi più crudelmente famoso, dentro al cuore del peggiore dei massacri. Un chilometro quadrato, sviluppato tutto in alto, dove non si vede il cielo e dove le persone muoiono sfiorando le ragnatele di filo elettrico scoperto che vengono tese da una casa all’altra, dove le strade sono larghe pochi centimetri, giusto quelli sufficienti per passare uno alla volta e la via principale, non più grande della più piccola strada delle nostre città, è stata ribattezzata l’autostrada. Ironicamente s’intende. Un chilometro quadrato, per 25.000 abitanti. Ai tempi del massacro, nel 1982, erano 4mila le persone che vivevano qua e la stima delle vittime, ancora oggi, oscilla fra le 800 e le 3500 persone rimaste uccise. Per ben tre giorni fu proibito a chiunque di entrare dentro al campo e il già citato Fisk, corrispondente per l’Indipendent, fra i primissimi ad entrare, si accorsa della gravità di quello che era successo, solamente dalla quantità di mosche che volavano per aria.


E’ un viaggio nella storia il nostro, un viaggio presi per mano da Kassem Aina, che ci racconta, si confronta, ci spiega il lavoro del ‘The National Institution of Social Care & Vocational Training, da lui diretta, dopo essere stato per anni braccio destro di Yasser Arafat, durante l’esilio in Libano. Un uomo che ha visto la guerra, che non vuole dimenticare, ma che continua a non perdere la speranza, anche dall’alto dei suoi anni da rifugiato, anche se il suo caro ‘diritto al ritorno’ è stato riconosciuto, ma mai messo in pratica. Laico, dialogante, in grado di interpretare la complessità che lo circonda, come stesse bevendo un bicchier d’acqua, ci dice: “La principale qualità di ogni palestinese è la pazienza. Questa sarà la nostra arma”.








Facciamo un giro per Sabra, entriamo dentro Chatila, visitiamo la scuola, conosciamo i bambini che vanno alla scuola materna di metodo montessoriano. Tanti, piccoli, spettacoli della natura. "Noi siamo tristi dentro, ma sorridiamo fuori”: è Jamila, la direttrice dell'istituto, una donna fatta di carne, sangue e dignità, nata a Chatila, c'era nell’82 ai tempi del massacro. Lei i bambini li vuole a scuola anche i giorni di festa: “Dove dovrebbero andare altrimenti?" Ci saluta con un pensiero semplice, quanto destabilizzante se ti fermi a pensarci sul serio: ”Anche qui i bambini hanno dei sogni, come voi. Il nostro lavoro è fare di tutto perché si avverino”.


E’ questo che mettiamo in valigia, prima di andare a fare l’ultimo concerto alla Zico House, la casa (vera) di un eccentrico, quanto eccezionale, signore, che condivide il suo palazzo con gli altri: come centro culturale, come locale under ground, come residenza d’artista, per chi vuole andare in Libano a fare bene alla cultura, come coworking per creare nuovi progetti, come un altro, l’ennesimo, luogo, anzi, l’ulteriore esempio, della voglia di resistere a quello che già c’è. E che non può piacere a nessuno.


La session degli Assalti Frontali doveva durare solamente qualche decina di minuti. Va avanti per 2 ore. Forse più. Il Libano è entrato dentro a Militant A, che ad ogni inframezzo racconta il nostro viaggio a tutti coloro che riempiono la venue. Come è entrato dentro a Pol G, che non smette di cantare i suoi cori un minuto, o come al Nano, il paroliere di molti pezzi improvvisati sui giorni appena trascorsi. C’è pure Marcello, coi suoi rasta finalmente lasciati stare in una Beirut ben più multietnica e abituata e certi generi di acconciature, rispetto a Tripoli. Lo è per Carla e Virginia, di Arci Toscana, le prime a progettare e a credere in questa pazza cooperazione culturale.


E lo è per noi del Circolo Karemaski. Perché fa bene vedere che la cultura e l’arte, le esperienze, un sound system scalcinato, la strada, quando è madre, ma pure quando è matrigna, il gioco, i 90 bpm le parole e un tetto devo dirle, l’aggregazione e lo stare insieme, passo passo, piano piano, un pezzo grande o piccolo, alla volta, possono continuare a cambiarlo questo mondo.

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