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Cronaca

Due medici aretini in trincea a Milano: "La solitudine dei malati e i turni massacranti. Paura? Non abbiamo tempo"

Elena Azzolini ha 34 anni e lavora in direzione sanitaria dell'ospedale Humanitas. Giacomo Guidelli, 35enne reumatologo, ha messo a disposizione le sue conoscenze nella sperimentazione del farmaco Tocilizumab

Sono giovani medici aretini, alle prese con l'emergenza in una delle zone più flagellate dal coronavirus in Italia. Giacomo Guidelli, 35 anni, e Elena Azzolini, 34, sono impegnati all'ospedale Humanitas di Milano, policlinico ad alta specailizzazzione, punto di riferimento internazionale per la ricerca sui tumori e malattie immunodegenerative. Sono entrambi dirigenti, il primo - in tempi normali - impegnato in reumatologia e la seconda in direzione. Elena èinvece dirigente in direzione sanitaria.

"Il nostro ospedale è cambiato radicalmente nel giro di un mese - spiegano - per di più, non avendo un reparto di malattie infettive il cambiamento, anche culturale, è stato veramente incredibile, oltre che sfidante, per la mancanza di abitudine alla gestione di un'epidemia, anzi di una pandemia, al di là delle simulazioni che vengono fatte durante l’anno per la gestione di un massiccio afflusso di pazienti con bisogno di isolamento aereo/da droplets. Il nostro lavoro quotidiano è stato stravolto: in pratica non esistono più le specializzazioni di ognuno, ma siamo in gran parte dedicati all'emergenza Covid".

La specializzazione di Giacomo, poi, è risultata assai importante nella lotta al Covid.

"Da reumatologo sono riuscito a ritagliarmi uno spazio affine alla mia specializzazione: tra i molti tentativi terapeutici nei pazienti Covid ci sono alcune terapie utilizzate per l'artrite reumatoide ed altre patologie reumatologiche. Queste terapie, che bloccano l'anomala risposta infiammatoria del nostro sistema immunitario dopo che è stato infettato dal virus, si sono dimostrate promettenti in una parte dei malati; nessuna cura miracolosa, ma per questa nicchia di pazienti queste terapie (parlo soprattutto del tocilizumab) hanno avuto buoni riscontri in questa prima fase dell'emergenza. Io, che avevo già una conoscenza di questo farmaco, mi occupo di selezionare i pazienti candidabili a tali terapie".

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Elena, invece, deve affrontare la delicata fase di coordinamento.

"Come aiuto medico in Direzione sanitaria, mi sono ritrovata in una comfort zone rispetto alla mia specialità perché fa parte della mia quotidianità il coordinamento delle attività clinico-assistenziali e l’organizzazione e gestione dei processi sanitari, con la differenza che questa volta oltre a dover fronteggiare un virus poco conosciuto avevamo anche pochissimo tempo a disposizione per prendere decisioni importanti e garantire una rapida capacità di risposta, di resilienza, di contenimento dell’infezione e di protezione del personale sanitario. Nell’arco di pochi giorni ad esempio abbiamo separato i flussi di pazienti, ridotto del 90% le attività elettive ospedaliere, raddoppiato le dotazioni tecnologiche, formato il personale sull’utilizzo dei dispositivi di protezione o la gestione dei ventilatori polmonari e cambiato il nostro modo di lavorare e comunicare".

Elena e Giacomo sono testimoni di cosa sia cambiato in queste settimane in una delle zone più martoriate.

"Personalmente - spiegano i due medici - queste settimane sono state difficili, ovviamente per il radicale cambiamento di routine ma anche dal punto di vista personale, con il timore per le persone care che abbiamo in Toscana. Tutto sommato, non c'è stato spazio per la paura di ammalarci in prima persona, nonostante sappiamo bene che da medici, a Milano, sia un rischio concreto in questo momento. Ma lavorando senza sosta da 50 giorni non abbiamo avuto tanto tempo per fermarci e riflettere, forse quello lo faremo in un secondo momento. Le prime due settimane sono state le peggiori, vedendo il pronto soccorso e i reparti stravolgersi, vedendo la solitudine dei pazienti che non possono avere contatti con i propri cari, vedendo purtroppo l'abbassamento dell'età media dei malati. Adesso, pur lontani dal risolvere la situazione, siamo un po' più ottimisti: l'ospedale ha risposto benissimo, grazie a una eccellente organizzazione (sia di gestione dei flussi dei pazienti che di contenimento del rischio infettivo) e, pur nell'emergenza, i meccanismi sono più oliati, si avverte anche meno la tensione dei primi giorni, inevitabile. La scorsa settimana, per la prima volta dall'inizio dell'emergenza, il coordinamento regionale per i pazienti che necessitano di terapia intensiva non ci ha fatto richiesta di trasferimento, pur avendo messo a disposizione della rete regionale dei posti letto, è un primo ma importantissimo segnale di speranza. Finalmente abbiamo dati di un trend che ci dice che le manovre di contenimento stanno funzionando. Lo vediamo anche nel numero di accessi in pronto soccorso. Nonostante questo, non possiamo abbassare la guardia e in effetti vediamo ancora un continuo afflusso di malati critici, non più esponenziale però. Come da previsioni, stiamo vedendo l’onda lunga di quei malati un po’ più giovani che hanno passato più tempo a casa dopo il contagio prima di arrivare in pronto soccorso".

Quali consigli potete dare da medici?

"Non possiamo che ribadire l’importanza delle misure di isolamento domiciliare e di prevenzione per limitare la diffusione del virus. Dunque, l'utilizzo di mascherine durante tutti gli spostamenti fuori casa, l’utilizzo dei guanti usa e getta quando fate la spesa, la pulizia delle superfici di casa e di lavoro più frequentemente toccate o utilizzate (ad esempio maniglie delle porte, corrimano, chiavi, interruttori della luce, tastiere, mouse e ovviamente il proprio cellulare). In particolare sembra che il virus possa resistere su materiali come plastica e acciaio fino a 3 giorni. Possono essere utilizzati i comuni disinfettanti a base di ipoclorito di sodio come amuchina o candeggina, o quelli contenenti alcol. Attenzione quando li utilizzate: sono prodotti altamente infiammabili".

State seguendo l'evoluzione della situazione aretina?

"Ogni giorno siamo sempre attenti ai dati che arrivavano da Arezzo; con tanto timore che possa arrivare l'ondata che stiamo vivendo in Lombardia. State facendo molto, anche in confronto ad altre città italiane, per proteggervi dall’outbreak, e questo ci fa stare più sereni anche per i nostri cari. Per ora, anche grazie all'ottimo lavoro delle istituzioni e alla sicura collaborazione degli aretini, la situazione è rimasta sotto controllo. Ma la fase che ci aspetta sarà la più delicata, soprattutto in una zona come Arezzo, toccata fortunatamente meno dal virus: dobbiamo evitare la 'sindrome del carcerato' e l'idea che le libertà di cui siamo stati privati ci vengano ridate tutte insieme. Ci auguriamo che tutti gli aretini lo capiscano, continuino al momento a rimanere in casa, ma che siano saggi ed accorti nel momento in cui la morsa verrà allentata. Siamo preoccupati da alcune immagini che ci arrivano da Arezzo in cui notiamo ci sia ancora troppa gente in giro. Anche noi per primi, pur da medici, in una fase iniziale avevamo sottovalutato la portata del pericolo imminente, e ne siamo stati travolti. Non vorremmo mai che tante persone, specie nell'Aretino, vivano questo problema come lo vivevamo noi a gennaio, vedendo la Cina come un mondo lontano, ritenendo tutte queste misure esagerate. E' un rischio enorme e non va corso, perché la strada per liberarci dal virus è ancora lunga".

E se queste settimane di emergenza sono state durissime, ci sono anche episodi di umanità che meritano di essere raccontati.

"Tanti momenti positivi - dicono -, vere boccate di ossigeno. Ci hanno fatto piacere le telefonate e messaggi di persone che magari sentiamo poco ma che si sono interessate a come stiamo. Nel quotidiano invece abbiamo apprezzato la collaborazione tra specialisti e funzioni diverse nel nostro ospedale; normalmente si tende a lavorare per silos, separatamente, ognuno col proprio orticello mentre adesso che remiamo tutti nella stessa direzione abbiamo avuto modo di apprezzarne lati di alcuni colleghi che non conoscevamo".

Non solo, ricorda Giacomo, c'è un episodio molto piacevole accaduto nella prima settimana dell'epidemia: "Ero in pronto soccorso a dare una mano, prima volta nella mia vita, e alla sera un ristorante qua vicino all'ospedale ci ha consegnato pizze, bibite. Non era dovuto ed è stato tanto apprezzato, ci ha fatto sentire vicino l'affetto della comunità e sicuramente questi gesti di umanità ci hanno dato e ci danno tuttora grande forza".

"Sono tantissime - chiude Elena - le immagini e numerosi i ricordi che ci lascerà impressi questa epidemia. Energia, forza, solidarietà e coesione emerse tra tutti gli operatori hanno permesso di vincere sulla preoccupazione collettiva. Non mi dimenticherò mai i volti segnati dalle mascherine: abbiamo imparato a sorridere solo con gli occhi. Mi ricorderò i 70 anni di mio papà, festeggiati a distanza con un video emozionante girato dalle aree Covid, le lacrime di ringraziamento da parte di colleghi da tutto il mondo: Stati Uniti, Australia, Brasile, Israele, Inghilterra, Germania, Francia e tanti altri Paesi, che ci chiedevano consigli su come prepararsi a gestire l’epidemia che stava arrivando da loro con la stessa velocità. Per lo svago ancora non c’è molto spazio e la stanchezza si fa sentire, ma dobbiamo tenere duro ancora qualche settimana".

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