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Psicodialogando

Psicodialogando

A cura di Barbara Fabbroni

Quella solitudine che ci travolge. Ma qualcosa si può fare

Scendere negli abissi della solitudine permette di riconoscere il vero della propria esistenza. Di Barbara Fabbroni

La solitudine interiore crea atmosfere dolorose, costruisce geografie dove si evidenziano luoghi d’isolamento, di perdita, di smarrimento. Racconta di storie dense e pregnanti di esperienze radicali, dove la perdita del senso s’intreccia con la nostalgia creando accordi silenziosi. La solitudine dell’esistenza si trama e si annoda, si evidenzia e si annida nella quotidianità di ogni giorno, nelle esperienze del dolore e della paura, della felicità perduta e della vita mistica. Emerge con dirompenza implodente dalle emozioni interiori che danno vita alle aree delle esperienze letterarie, delle liriche poetiche, al cronotopo della sofferenza psichica, alle dimensioni esistenziali dell’homo viator (Marcel, 1944/1980).

Ogni solitudine ha il suo linguaggio, il suo messaggio, la sua intenzionalità, il suo vissuto, il suo corpo, la sua esperienza e il suo variopinto ventaglio di emozioni, dove è racchiuso il mondo-proprio della persona nell’evidenza naturale del suo essere sia corpo sia anima, in un accordo di note dove la vita armonizza la sua sinfonia. I toni, i ritmi, le disarmoniche armonie che emergono dalle solitudini ci raccontano di speranze e attese frantumate, d’illusioni divenute delusioni, di occhi vivi divenuti annebbiati, di sguardi svuotati dispersi in un Altrove che è smarrito.

Ogni essere umano, piccolo o grande che sia, gettato nella dimensione solitaria dell’essere-nel-mondo si avvezza al suo silenzio che confina con altri silenzi, con il vuoto di altri vuoti, con il nulla di vicini nulla, con il rumore assordante di silenzi condivisi, con la quiete frantumante di una tempesta interiore, dove tutto diviene spaventosamente possibile nell’impossibile e nella desolazione della radura del mondo della vita.

La solitudine ha il sapore del crepuscolo quando il sole si allunga all’orizzonte creando una striscia confusa senza confini e argini, dove non c’è più mondo, dove non c’è che il nulla, imperativo e fendente, vasto e impalpabile, abissale come la profondità dell’oceano. Scendere negli abissi della solitudine permette di riconoscere il vero della propria esistenza, apre la fessura interiore, dove si avverte il silenzio ascoltando le invisibilità che affollano l’anima con voci sottili ma pungenti, con parole silenti, ma taglienti, con sguardi gelidi e con presenze assenti.

La solitudine come possibile Epifania del cuore perso e arso dal dolore per un’aurora scomparsa tra le fitte ombre della tristezza e della malinconia. La solitudine come naufragio nel silenzio di un’infanzia giocata nella riva degli imperativi e dei doveri, delle aspettative e delle svalutazioni. La solitudine come eco che si amplifica così come può essere lo spavento nei bambini, come lo sguardo attonito di chi ha perso il senso della vita, come lo smarrimento di chi non vede il presente, ma è assorbito dalla perturbante devastazione del passato.

La solitudine come destino giocato negli intrecci del copione esistenziale dove il progetto-di-mondo è divenuto un ricordo lontano, perduto nelle nicchie della memoria. La solitudine come incontro mistico di una possibile attesa nell’immensità di un tempo che si dilata e si allunga negli ingranaggi di un mondo in rincorsa. La solitudine come scelta per nascondere e proteggere un’anima troppo sensibile e fragile dalle intemperie violente dell’accadere mondano.

La solitudine abita la vita facendo crescere rachitico il cuore pur nella sua spinta vitale come organo che pulsa, che batte, che vive. La nebbia della solitudine dove la persona si smarrisce si rarefà nella perdita totale di sé dove non c’è più mondo, dove non c’è più un isolotto per approdare, dove la bussola si è frantumata in una miriade di particelle infinite. La solitudine che sceglie senza riconoscere, che accarezza senza toccare, che guarda senza osservare, che ascolta senza sentire, che c’è, esiste, abita l’anima e il corpo sin dal primo battito vitale.

La solitudine non ha età, attraversa con la sua densità, la nostra esistenza. Nasce con noi, ci abita, ci accompagna nell’incontro con il volto dell’Altro e si manifesta in tutta la sua perturbante evidenza nelle dimensioni sconfinate dei deserti della vita.

Nascita e morte sono le colonne all’interno delle quali si dipana il discorso della vita nell’andirivieni di emozioni e percezioni, d’incontri e separazioni, di solitudini e tramonti. Entrambe rappresentano due momenti dove la solitudine si fa partecipante all’accadere dell’esistenza. La solitudine comunica di sé attraverso l’urlo e il pianto, la chiusura e l’isolamento, esperienze dolorose che nascono dall’abbandono, dall’angoscia di separazione (con la nascita) e dall’angoscia di morte (con la morte).

Ogni bambino nasce piangendo. Le sue lacrime accompagnano il pianto che incide il tempo della sua venuta nel mondo della vita dove è gettato da una pulsione espulsiva durante il travaglio. Ogni creatura umana è spinta verso il mondo dalla forza vitale, la Physis, che è pulsione all’esistenza. L’esperienza dell’abitare il mondo-utero materno sarà per il bambino in gestazione un processo di trasformazione che si tesserà e tramerà in nove mesi all’interno dell’esperienza come “corpo-nel-corpo” (Fabbroni, 2011, pp. 61-87).

Dal caldo umido e protettivo della sua esperienza di “corpo-nel-corpo” (Fabbroni, 2011, pp. 61-87), durante i nove mesi di gestazione che l’ha fatto sentire in stretta relazione intersoggettiva con la madre, attraverso il tatto, il dialogo co-narrato, il tempo della gestazione, il cucciolo d’uomo si trova a un certo punto del suo sviluppo gettato in un nuovo mondo dove inizierà una nuova esperienza intersoggettiva e intrasoggettiva. Il mondo che il bambino incontrerà è uno spazio troppo grande, i confini sono dilatati, cambia la percezione tattile, si modificano gli odori, i sapori, i suoni, la luce, il calore. La percezione della perdita e del sentirsi perduto in un cronotopo sperduto si fa implodente tanto che la piccola-creatura afferra da subito il corpo-sguardo della madre. La paura, la perdita, lo smarrimento, la solitudine, sono compagne del viaggio che sta iniziando con la nascita.

“Lo sguardo altrui (…) mi avvolge per intero, essere e nulla. Ecco quello che, della relazione con l’Altro, non dipende da nessuna possibilità interiore, e che costringe a dire che essa è un puro fatto. Ora, quantunque sia un incontro che può essere dedotto a partire dal per-Sé, è pur sempre vero che essa offre un senso per me” (Merleau-Ponty, 1960/2003, p.232).

Il cucciolo d’uomo, sin dalla prima esperienza d’incontro con l’Altro può sperimentare emotivamente le atmosfere e i toni, i vuoti e i pieni, gli orizzonti e le penombre, della sensazione della paura, della perdita, dello smarrimento, della solitudine, tanto che quest’emozione si evolve configurandosi come un vero e proprio sistema emotivo di particolare rilevanza e complessità, a mano a mano, che la piccola creatura cammina nel mondo incontrando l’Altro, l’ambiente fino a incontrare la propria immagine riflessa nello specchio.

Quell’immagine di sé che sarà il primo incontro-sguardo con il corpo-proprio. Quel corpo-proprio nel quale lentamente, come nella stesura di un’opera d’arte, si tracceranno i fili, i chiaroscuri, i colori, i tratti, le ombre, le zone di confine dell’esistenza. Un’esistenza dove l’emozione della paura, della perdita, dello smarrimento, della solitudine, a volte, incide percorsi, esperienze, frangenti, ritmi spiacevoli, che si esprimono attraverso un corpo che parla e racconta di un dis-agio, chiuso e racchiuso in una bolla solitaria.

Il trauma esistenziale della nascita e dell’incontro con il mondo della vita ha bisogno di una cura particolare, di un prendersi cura con amore e presenza, con autenticità ed empatia, con protezione e rassicurazione, affinché la piccola creatura non consolidi e rafforzi in sé la sua prima triste esperienza di solitudine.

La solitudine è compagna di viaggio verso l’Oltre, luogo dove “L’être et le nèant” (Sartre, 1943/2008) si presenta nell’andare veloce di un quotidiano vivere. Le solitudini che attraversano e abitano i nostri studi narrano di fantasmi e di emozioni, di esperienze e di ricordi che giungono dal mondo infantile o chissà forse dall’esperienza di “corpo-nel-corpo” (Fabbroni, 2011, pp. 61-87).

C’è un grido dentro l’anima che squarcia la vita nel suo farsi sentire con la forza della sua energia. È un urlo che porta fuori, che conduce fuori-da, è un incamminarsi nelle fitte nebbie del domani alla ricerca dell’amore mancato, della mancanza d’amore. Cambia la percezione di noi, si modifica l’immagine nello specchio del corpo che abitiamo, non ci sono più punti di riferimento, tutto è dilatato e impalpabile. L’essere in solitudine è un viaggio, è un travagliato percorso di percezione e ascolto delle voci interiori, è un luogo-spazio-tempo tramato nella e con solitudine, lontano da occhi che guardano senza riconoscere, da parole che sono come pallottole, da presenze assenti. La “manque-à-être” (Lacan, 1966, p.565), di lacaniana memoria, aiuta a comprendere il mondo solitario delle creature, piccole o grandi, che lo abitano.

Le esperienze che il bambino, a volte, fa sono una vera e propria scuola verso la solitudine, la vita gli insegna a esser solo, tanto che giunto alla prima età adulta la solitudine continua a essere compagna di vita in ogni contesto. L’essere umano educato alla solitudine e non all’incontro attualizzerà schemi copionali dove non esisterà la spontaneità dei rapporti, ma tutto sarà giocato all’interno della mancanza e dell’insoddisfazione. Nascerà la solitudine a due. Sarà la solitudine del “Noi” (Buber, 1962/1993). Sarà una solitudine che vive nel cuore e nell’anima. È la nostalgia dell’infinito come bisogno del finito. La “Noità” (la Wirheit di Buber, 1962/1993, pp.59-146) diviene perdita e luogo di smarrimento.

La solitudine può sorprendere e prendere senza preavviso. È un luogo-spazi-tempo pieno di sofferenza e dolore, di attesa e spavento, di ombre e chiaroscuri, di nebbia e ghiacciai. Le persone che vivono nella solitudine s’intravedono nell’ombra, legate a un filo sottile, sono come un disegno ricalcato con la carta carbone di cui resta una traccia sfumata e sbiadita, come il taglio nelle tele di Lucio Fontana che attraversa e fende l’anima, come i poetici canti di Giacomo Leopardi, come le mistiche parole di Teresa D’Avila o la vita di Teresa di Calcutta.

Maestri sono per noi gli artisti, eternamente bambini, alla ricerca della propria intima verità, che riescono ad afferrare e comunicare attraverso le loro opere il significato profondo del mondo, dell’Altro, dell’esserci, traducendo il silenzio dell’anima in immagini e parole, in suoni e note armoniose.

Percorrere ed incontrare il mondo dei silenzi urlanti della solitudine è come fare un cammino nei luoghi sacri dell’anima. È un viaggio che si compie solo nel suo andare verso quello spazio interiore dove sono racchiusi i modi di essere, i linguaggi, le memorie, le esperienze, il corpo della solitudine smarrita e perduta nel quotidiano vivere. In questo cammino s’incontra il frastuono assordante dei pensieri silenziosi che sono divorati dalla mondanità di un essere-nel-mondo dove la ricerca del senso della propria vita diviene la meta in grado di soddisfare e nutrire le fami di berniana memoria, pur nel pericolo di imbattersi in nuove ghiaccianti moltitudini di illusioni e false apparenze di porti sicuri e rassicuranti.

Come il colle caro al poeta: “(…) dove la siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura (…) Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare” (Leopardi, 1819, p.322).

In questo mare di stelle cadenti dove il cammino è un andare nella solitudine interiore dell’anima come unica via per stare ed essere-nel-mondo.

Come terapeuta mi capita sostare con i miei pazienti, piccoli e grandi, nel cronotopo dell’assenza, della mancanza, dello smarrimento, strutturando con loro un incontro dialogico che prenda voce e senso dal silenzio di parole e immagini, di sguardi e presenza, di sfumature e sospiri. In questo stare-con, che non è semplicemente un Mitsein (essere-con), ma è molto di più ancora, mi addentro con “grazia e mistero” (“Gnade und Geheimnis”, Callieri, 1999, pp.7-14) nel loro mondo interiore, nella speranza di toccare solo sfiorando la forza misteriosa e viva che pulsa dentro ognuno di loro.

Le esperienze di solitudine radicalmente diverse, che nel mio essere terapeuta in cammino incontro, raccontano di mondi e di corpo, di vissuti e memorie, che le persone-pazienti, piccole o grandi, portano nel “cortile della cura” (Fabbroni, 2010, pp.147-214). La solitudine interiore s’interseca con la solitudine dolorosa che a tratti fa emergere una solitudine creativa che riporta un piccolo, flebile, impercettibile filo di luce nella notte oscura dell’anima.

Il tema della e sulla solitudine diviene un tentativo per dar voce e recuperare le dimensioni fenomenologiche delle esperienze dell’esistenza che si evidenziano nell’anima della creatura umana attraverso l’emozione della felicità o dell’infelicità, dell’attesa o della speranza, della base sicura o dello smarrimento, dell’essere persona o non-persona. 

Che cosa raccontano le solitudini che abitano i luoghi, le geografie, le storie delle anime che si muovono nel variegato mondo delle emozioni tramate tra felicità e infelicità?

Quale orizzonte di senso si può cogliere dai mondi abitati dalla felicità profonda o dalla felicità naufragante?

Lungo questo andare, a volte luminoso altre volte buio, a volte doloroso altre volte smarrito, ma pur sempre aperto all’incontro con le emozioni, con l’Altro, con il Sé, perché ogni creatura vivente è pur sempre, anche nella sua caduta vertiginosa nel mondo psicopatologico, dialogo e mondo, corpo ed esperienze, incontro e contatto, attesa e speranza, incontreremo la vita nelle sue atmosfere e nelle sue donazioni di senso. È importante coglierne il linguaggio e, a piccoli passi, entrare nella “fessura dietro il mondo interiore” (Fabbroni, 2010b; 2010c, pp.36-46; 2011, p.77, p.129) della persona, affinché sia possibile esserci pur della devastazione di un’anima alla deriva. È importante scrivere sulle e delle solitudini, osservare e ascoltare l’immensità delle solitudini dell’anima in un incontro al tempo stesso poetico e trasformativo, è per me gesto d’amore e di speranza, d’accoglienza e di presenza, di ascolto e di riconoscimento, verso tutte quelle persone, piccole o grandi, che vivono l’esperienza profonda di quest’emozione, nel recinto dei loro pensieri, nel cortile della loro esistenza, nelle stanze della loro vita giocata tra attimi e minuti, tra giorni e mesi, di un tempo perduto.

Il viaggio nelle solitudini e con le solitudini delle persone pazienti che abitano il “cortile della cura” (Fabbroni, 2010, pp.147-214) mi ha offerto la possibilità di sentirne la vibrazione e l’emozione radicata, ho compreso che possiamo averne cura senza sradicarla creando nuove armonie che conducono verso la gioia e la speranza ritrovata, verso un’infelicità che ritorna ad essere felicità, verso un domani che si tesse in un presente dove il passato ha ritrovato il suo spazio tra le memorie dei ricordi. Questi incontri, questi vissuti, queste emozioni, questi percorsi di cura, a volte addirittura inafferrabili, li vorrei condividere con Voi nella speranza che, come terapeuti, abbiate la possibilità di stare ed essere con l’Altro in tutta la pregnanza di un incontro d’anime che diviene incontro di cura curante.

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