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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Psicodialogando

Psicodialogando

A cura di Barbara Fabbroni

Quel cibo ingerito per riempire ogni vuoto: cosa si nasconde dietro alle abbuffate

Quando un individuo si ritrova a svuotare il frigorifero come in preda a un qualcosa che diventa irrefrenabile, c’è qualcosa dentro che chiede ascolto e riconoscimento. Un dolore, una sofferenza, una svalutazione, una frustrazione, un tradimento possono essere alcune delle esperienze che portano la persona a trovare una compensazione emotiva con il cibo

È capitato anche a te che curiosa(o) leggi questo articolo, sì lo so: mangiare senza fame, riempire un contenitore che si chiama stomaco per non sentire il vuoto affettivo, quella voragine che ti smarrisce. Così un cioccolatino dopo l’altro, una patatina e una nocciolina, una tartina al formaggio o quei gelati deliziosi entrano in bocca con un ritmo scandito dal bisogno di appagamento. Momento dopo momento fintantoché non ti senti scoppiare, ti fermi un attimo ma se la solitudine è ancora lì accanto a te e il bisogno di essere amato si fa portavoce del tuo esser solo(a) di fronte al mondo allora torni a nutrirti di quel cibo che apparentemente placa.
Mangiare prima di essere solo un piacere è una necessità vitale. 
Ma i sensi di colpa nel momento in cui si utilizza il cibo per sedare un momento di smarrimento si fanno enormi e il dialogo interno non smette di ripetere insistentemente: “sei golosa”, “non sai controllarti”, “se continui così non starai più nei pantaloni”.
Il vissuto di ogni persona si lega profondamente alla modalità di relazionarsi con il cibo, si colora di tonalità emotive non trascurabili, di ondulazioni più o meno riparatorie di fronte al desiderio di svaligiare il frigorifero. Sin dalla nascita, il rapporto con il cibo è intimamente legato alle esperienze affettive con le figure significative con cui il cucciolo d’uomo si rapporta sin dal suo primo vagito. L’allattamento, la modalità di costruire un modello di attaccamento sano con la madre, lo svezzamento, le persone che appartengono alla sua sfera emotiva fanno sì di costruire un ambiente più o meno sano che sarà il territorio dove il(la) piccolo(a) sperimenterà il mondo. Se l’ambiente è meno favorevole, il bambino può̀ crescere incapace di sviluppare altre fonti di gratificazione e, da adulto, si appoggerà̀ al cibo come se fosse la primaria, o l’unica, fonte di sostegno emotivo.
“Siamo ciò che mangiamo” ci ricorda Ludwig Feuerbach. Ciò che mangiamo è frutta delle emozioni che abitano dentro di noi, ci danno la possibilità di sentirsi in sintonia con l’altro e il mondo o di sentirsi slegati da rapporto significativi.
Durante la crescita, tendiamo a pensare che il nostro comportamento alimentare sia solo frutto di una predisposizione individuale al cibo, ignorando quanto invece, il nostro vissuto dalla nascita in poi, plasmi in maniera considerevole il nostro modo di relazionarci all’alimentazione.
Avere un rapporto malsano con il cibo racconta molte cose di quella persona che appartengono al suo vissuto e alla sua storia sin dal momento della nascita.
Quando un individuo si ritrova a svuotare il frigorifero come in preda a un qualcosa che diventa irrefrenabile, c’è qualcosa dentro che chiede ascolto e riconoscimento. Un dolore, una sofferenza, una svalutazione, una frustrazione, un tradimento possono essere alcune delle esperienze che portano la persona a trovare una compensazione emotiva con il cibo. Il cibo è buono, è facilmente reperibile, non costa molto, si trova facilmente in ogni situazione. Una meravigliosa soluzione nei momenti più difficili. 
Purtroppo l’atto di riempirsi di cibo è un urlo muto di emozioni non ascoltate che implodono dentro l’anima, il cibo diviene un comodo passepartout, una sorta di anestetico immediato e strumentale al bisogno impellente di esprimere la guerriglia “privata” con se stessi. La mancanza di esperienze gratificanti, di divertimento, di piacere o di sentimenti felici, crea un vuoto significativo. È una sgradevole sensazione di qualcosa che manca, accompagnata da tentativi di riempire il vuoto con il cibo. 
Possiamo parlare di “Emotional Eating” nel descrivere un individuo che risponde ad una situazione emotivamente delicata, carica di tensione, stressante, con un modo di alimentarsi incontrollato e ipercalorico, anche in assenza di fame. Di fronte al dramma si trova un rimedio, giusto o sbagliato il cibo diviene la medicina apparentemente giusta per quella situazione.
È innegabile che la fame nervosa guidi verso cibi altamente calorici o dolci con una funzione “coccola” spesso già pronti all’uso. Sono alimenti che si usano rapidamente, ritardano la trasmissione del segnale di sazietà, questo spesso porta a mangiarne razioni sempre più abbondanti, fino a sfociare nel meccanismo classico delle abbuffate.
Ci sono persone “avide di carboidrati”, soggette a irascibilità̀, agitazione, noia ed apatia, in conseguenza al basso livello di serotonina nel cervello. Così la tranquillità̀ e il senso di benessere viene recuperato con uno spuntino a base di carboidrati.  
Anche l’ansia, la noia e la solitudine possono essere collegate al cibo. Così come la rabbia repressa può avere uno stretto collegamento con l’alimentazione. In alcune persone il mangiare o il rifiuto di mangiare vengono considerati come un mezzo per gestire la rabbia repressa che non riescono ad esprimere. 
I collegamenti tra cibo e sentimenti sono molti e hanno effetti disparati. 
L’equilibrio alimentare è strettamente legato all’equilibrio e al soddisfacimento personale. 
 

Quel cibo ingerito per riempire ogni vuoto: cosa si nasconde dietro alle abbuffate

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