BLOG | Incontri: Agnese, parte prima
«Cosa mi chiederà? Cosa si aspetterà? Cosa penserà di me? Sono ancora in tempo per andare via?»
È calata la sera. Un sipario di nuvole crea un chiaro scuro nel cielo che si prepara per accogliere una luna timidamente nascosta allo sguardo. È un cielo che si fonde e confonde in orizzonti contenuti tra i palazzi medievali. È un cielo in cui le stelle non contornano i confini ma lasciano spaccati in cui l’oblio della notte si sta adagiando. Tutto intorno le luci natalizie, a una a una, si sono accese creando un’atmosfera calda ed avvolgente, che contrasta con la cupità del cielo.
Luci, che sono ponti tra un palazzo e l’altro, protese l’una verso l’altra, cingono in un unico abbraccio le mura medievali del centro storico. I palazzi maestosi ed imponenti acquistano una generosa atmosfera nel gioco di luce ed ombra che si crea.
Qua e là dentro le finestre si intravedono le luci degli alberi di Natale che vanno e vengono al ritmo leggero di un balletto classico. Da una finestra un volto guarda la strada. È una giovane donna con lunghi capelli color oro. Il suo volto è proteso a curiosare nel mondo, a osservare cosa accade giù, per la strada, di una città che si sta preparando al Natale.
Come se potesse restare a guardare fuori dalla finestra tutto il giorno.
Davanti a lei l’ippocastano, che maestoso protende i suoi rami fluenti e ricchi di foglie ingiallite, fa da cornice al viale che conduce verso la piazza centrale del centro.
L’edicola, all’angolo davanti a Lei, sta chiudendo i suoi battenti, mentre l’ultimo cliente arriva di corsa a prendersi il quotidiano di questa giornata dicembrina ormai tramontata. Quell’uomo, sulla sessantina, è arrivato di corsa e correndo ripercorre la stessa strada da cui è giunto incurante di ciò che intorno a lui sta accadendo. Il mondo, che lo circonda, sembra non abbia né senso né significato.
Il suo andare è una corsa, un rincorrere un tempo che batte i colpi incessanti di un andare verso, che si disperde nella troppa frenesia della vita che lui sta vivendo.
Lo sguardo della giovane donna alla finestra sembra incuriosito da tutto questo accadere, come se questo mondo, che si schiude sotto i suoi occhi, fosse per Lei il disvelamento di quell’ancoraggio alla vita di cui sente parlare. Come se questo ritmo, che si sta vivendo giù nella strada dell’esistenza, le offrisse la possibilità di contattare quegli incontri in cui emerge il bisogno di pensarsi e sentirsi esistere nonché attraversare dalla vita.
Curiosa continua a guardare i giochi dei bambini, che si inseguono ridendo ed urlando tra i rimproveri delle madri, che li vorrebbero ben composti al loro fianco.
Osserva interessata un giovane uomo con il suo cane al guinzaglio, che cammina con il volto rivolto in basso, come se non riuscisse a guardare il mondo in cui è gettato. Quel giovane le muove una strana improvvisa sensazione, che le fa, per un attimo, accelerare il battito del suo cuore. Le tornano alla mente le note e le parole di una canzone-poesia, si mette a canticchiare a bassa voce solo in questa città. Non ho abitudine a girovagare con tutte queste anime (…) tutto ciò di cui ho bisogno è un amico. Quell’amico che cambia le coordinate di una vita, della propria vita. Quella presenza amica che fa sentire in contatto con l’Altro all’interno di un incontrarsi trasformativo.
Al tempo stesso, il suo sguardo è attratto da una coppia di anziani signori. Lei avvolta da una calda pelliccia. Lui con il suo cappello stile Borsalino ed una sciarpa color cammello intorno al collo. Camminano tenendosi sottobraccio e di tanto in tanto si fermano a curiosare nelle vetrine addobbate a festa per il Natale.
Più in là una giovane coppia spinge una carrozzina. Lui e Lei, mano nella mano, insieme vanno nel mondo con il loro cucciolo avvolto tra le calde coperte della culla. Nei loro occhi gioia e speranza, sogni e desideri, un’emozione pungente che stimola alla vita.
A un certo punto una voce giovanile riecheggia nell’aria.
«Laura», una ragazza si volta. Sorride, fa un cenno con la mano e corre incontro al giovane sciogliendosi in un abbraccio lungo ed avvolgente.
«Mi sei mancato», dice Lei continuando a stare abbracciata a Lui.
«Non vedevo l’ora di abbracciarti», dice Lui con gli occhi gonfi di lacrime.
«Ti amo», sussurra Lei.
«Sei tutta la mia vita», fa eco Lui.
«Adesso staremo un po' insieme. Sono felice», continua la giovane donna mentre un sorriso le riempie il volto e gli illumina lo sguardo.
«Non voglio più separarmi da te», rincalza il giovane.
«Vedrai troveremo un modo. Io non voglio stare così tanto lontano da te», prosegue Lei con la dolcezza del suo parlare sussurrato.
L’abbraccio continua tra lo sguardo curioso dei passanti e, poi, si apre al tenersi per mano, mentre si incamminano verso la piazza centrale. I loro volti sono intrisi di emozione, di commozione, di passione, di serenità. L’uno abita nello sguardo dell’Altro creando un corpo emozionale unico. Entrambi si attraversano e si vivono in un’unità noistica, che offre un luogo particolare all’interno del quale viversi.
Si fermano nel caffè ottocentesco. Si siedono. È freddo, ma i funghi riscaldano l’aria rendendola meno pungente e, poi, le copertine di lana cotta messe sulle ginocchia li proteggono dal freddo. Un via vai di passanti scivolano davanti a loro.
Lei ordina una spremuta d’arancia. Lui un tè caldo con pasticceria secca. Tra di loro poche parole, tanti infiniti e profondi sguardi. Tanti sorrisi. Dolcissime carezze. Avvolgenti baci. Sguardi profondi. Caldi abbracci come se il corpo proprio dovesse penetrare nel corpo dell’Altro andando così ad abitare quegli arcipelaghi sommersi della propria cattedrale interiore. Entrambi, l’uno imbevuto dell’Altro, continuano nel loro dialogo silenzio con quelle parole silenti, che raccontano di quell’amore, che stanno vivendo.
Le loro parole d’amore nascono dal silenzio dei loro sguardi, che contattano dolcemente il vibrare all’unisono delle loro anime perse in quel mare d’emozione, che li avvolge.
Davanti a loro passa una giovane donna. Il suo sguardo è perso. Il suo volto è tirato e triste. I suoi occhi sono coperti da un velo malinconico e nostalgico. Un grande sciarpone di pelliccia avvolge l’esile corpo. La sua andatura è stanca, pur nella sua ancor giovane età. È un andare alla ricerca di una meta, che sembra non trovarsi.
Ha in mano dei libri, ad un certo punto inciampa e i libri, che teneva stretti con cura, le scivolano di mano cadendo a terra davanti a Lei. La giovane donna fa un sussulto come se quella caduta le avesse provocato un forte dolore. Si arresta. Resta immobile per qualche secondo. Si guarda in giro. Il giovane seduto ai tavolini, lasciando per un attimo la sua amata, prontamente si alza per darle una mano.
Lei, quando lo vede avvicinarsi, gli dice con un fare gentile «Non si preoccupi riesco a fare tutto da sola. Grazie». Lui la guarda, sorride dicendo «Se vuole posso aiutarla?», ma si rende conto che la giovane donna non accetta il suo aiuto e torna a sedersi dopo averle nuovamente sorriso.
La donna raccoglie i libri togliendo la polvere che hanno preso cadendo a terra. Si ferma ancora un attimo. Si guarda nuovamente intorno. Si volta verso la giovane coppia seduta al tavolino, incontra lo sguardo di lui, fa un cenno con la testa come a riconfermare il suo grazie, poi, si asciuga una lacrima e continua a camminare, come se in quell’andare ci fosse un senso al suo esistere. I suoi libri sono compagni di viaggio. Lei si aggrappa a questi volumi come se tra Sé-e-Sé si ripetesse, ho un libro come compagno. Si, ho tutto ciò di cui ho bisogno ed è più di quanto io possa prendere. Fa alcuni metri ancora con un passo lento, una postura ricurva su di sé, come se volesse proteggersi dal mondo, che freneticamente le sta passando accanto. Più volte si ferma, sembra impaurita, angosciata, insicura, ma poi riprende il suo andare avanti.
Di lì a pochi metri ancora, la giovane donna si ferma davanti a un portone di un antico palazzo del cinquecento, si gira intorno, poi, suona un campanello.
Il portone si apre. All’interno una corte e un piccolo giardino fanno da cornice alle maestose scale di marmo contornate da affreschi, che riportano scene di un cortile agreste. Le piante che ornano la corte interna sono ormai spoglie per l’incipiente arrivo della stagione invernale. Sono arbusti di piccola struttura che protendono verso l’alto i rami privi di foglie, come se andassero a cercare una protezione. I vasi sparsi qua e là sono solo un mucchio di terra, che attende una nuova primavera. Tutto sembra staticamente immobile; eppure, questa calma vivente ha in sé la vita, che sboccerà con la nuova primavera. Al centro del giardino un abete altissimo si protende verso l’alto tutto completamente addobbato di luci natalizie, che si accendono e spengono ritmicamente. Quell’albero natalizio sembra portare una calda atmosfera a questo cortile interno, in cui tutto sembra essersi addormentato, in attesa della nuova primavera.
La giovane donna rapita dai suoi pensieri non si accorge, che il portiere del palazzo le sta andando incontro. Ad un certo punto volge lo sguardo verso il portiere, che fermo, con in dosso la sua livrea, con fare cortese le dice «Buonasera Signora, dove deve andare?».
«Buonasera. Ho un appuntamento con la dottoressa», dice la donna.
«Prego. Terzo piano. L’ascensore è sulla sinistra», le dice il portiere.
«Grazie, ma preferisco le scale», risponde con cordialità la donna.
«Se vuole posso accompagnarla io?», le risponde gentilmente il portiere.
«No, grazie, riesco a fare tutto da sola, non ho bisogno, mi piace salire a piedi le scale».
«Come preferisce signora. Allora, buonasera», risponde il portiere.
«Grazie, buonasera», dice la donna con fare gentile.
La giovane donna sale lentamente le scale. Nel salire continua a guardarsi intorno. Il suo cuore batte forte. È emozionata e ansiosa per quell’appuntamento, che ha atteso per molto tempo. Nella sua testa un turbine di pensieri, emozioni, sensazioni, parole, commozioni, che si accavallano e creano un rumore assordante e disturbante. Sono tutte parole che nascono dal suo silenzio interiore. Fra Sé-e-Sè un dialogo dal sapore di un monologo shakespeariano, che fa accelerare sempre di più il battito del suo cuore.
«Cosa mi chiederà? Cosa si aspetterà? Cosa penserà di me? Sono ancora in tempo per andare via?».
Mentre queste domande creano un ingorgo nei suoi pensieri la donna si ferma al secondo piano. Trattiene il suo andare avanti. Si gira come se volesse rinunciare. Fa alcuni scalini per tornare indietro, poi, risale e si ferma. Passano alcuni minuti. Decide di continuare a salire.
In questo momento la giovane donna sembra assorbita da un vortice di angoscia, le sembra un’angoscia ancora più lacerante di ogni altra angoscia sperimentata. Il linguaggio del suo corpo si trasforma, grida nel silenzio e si oscura in una pietrificata immobilità, che di tanto in tanto la blocca nel suo andare. Sembra essere cambiata anche la sua percezione del tempo che si dilata in uno spazio infinito da non riuscire a contenerlo.
«Ho paura. Non sono sicura. Cosa mi succederà? E se anche Lei sarà un fallimento come gli altri incontri? Questa volta non posso sbagliare. Se non mi piacesse? Dicono che è brava ma se non riuscirà a capire?», si ripete all’interno della sua testa. Questo rumore fa da sfondo e corollario alle sue emozioni, alla frantumazione e all’ingessatura, che l’angoscia le fa sperimentare. Ella è un corpo unico con le sue emozioni, dove lo spazio, il tempo, il luogo e l’Altro, come in una cartografia si dispongono costruendo una terra, una zona particolare in cui emerge un paesaggio oscuro, impenetrabile, impalpabile, doloroso.
Nonostante tutto questo susseguirsi di domande, di emozioni, di commozioni, arriva davanti al portone dello studio della dottoressa, che non conosce e che, al tempo stesso, ha paura di incontrare.
È un grande portone di noce intagliato con i pomelli color oro. Tutto intorno una cornice di pietra fa da corollario a questo imponente portone con la targa in ottone.
La donna si trattiene ancora. Si ferma qualche minuto. Il portone è così grande, che sembra soffocarla. È un gigante e Lei si sente così piccola ed indifesa, tanto da non riuscire a fare nulla. Attende ancora. Passano alcuni minuti. La sua testa è un vortice in cui non riesce a fermare alcun pensiero per la velocità con cui si presentano ed accavallano l’uno dietro all’altro.
Le mani tremano. Si sente ancora una volta persa. Non riesce a dare senso a questo accadere. Questa strana sensazione l’accompagna ormai da molti anni. È una percezione profonda, inquietante, frantumante. Vorrebbe scappare lontano. Vorrebbe nascondersi al mondo. Desidererebbe avere le ali per volare via.
Ancora una volta si sente una nomade chiusa e racchiusa nella sua cittadella interiore fatta di angoscia, di solitudine, di incomprensione, di dolore, di malinconia, di pensieri che si accavallano e di immagini di sé che non sono riconoscibili alla sua visione. Questo suo essere nomade si infrange in emozioni, che hanno cambiato radicalmente i suoi modi di vivere. Per Lei essere le sue emozioni ha significato cambiare la sua visione del mondo, del mondo in cui Lei vive. La sua esistenza è diventata la metafora del suo dolore ed il suo corpo il teatro in cui questo abisso malinconico recita la sua commedia. Passa ancora un po' di tempo. Questo è un tempo senza tempo. È un tempo vuoto e svuotato. È un tempo fissato che ha perso il significato della temporalità.
Il tempo vissuto. Il tempo, che ora sta vivendo questa giovane donna, mette in evidenza l’alterata relazione con la temporalità come la causa dell’impossibilità di esperire in modo autentico la propria vita. La perdita di questa possibilità ha condotto la giovane donna in un mondo sofferente come unica esplicitazione di una dissonanza del suo tempo vissuto. Ella non è stata, ad un certo punto del corso della sua vita, più in grado di rappresentarsi le tre dimensioni della temporalità, in modo da distinguerle correttamente l’una dall’altra, ma piuttosto le ha sovrapposte, proiettando nel futuro le esperienze del passato tanto da non riuscire più a viversi nel presente. Passa ancora un po' di tempo, poi, timidamente, come se dentro di Lei qualcosa la conducesse a fare un gesto, che la portasse via da questo vortice di immobilità, suona.
Alcuni secondi e il portone si apre. Una donna sui quaranta anni si presenta davanti a lei. Quella stessa donna, che guardava incontrando con il suo guardare, il mondo della vita che andava, affacciata dalla finestra del suo studio in una pausa tra una seduta e l’altra. La sua corporatura è normale. Non è molto alta, ma nell’insieme la sua figura è armoniosa. I suoi capelli sono raccolti con un fermaglio dietro alla nuca, che lascia intravedere la loro lunghezza. Ha un sorriso caldo. Rassicurante. Il suo sguardo è accogliente. Indossa un abito molto semplice. Il suo sorriso parla.
La giovane donna, tra Sé-e-Sè si dice «Si, deve essere Lei. È lei la dottoressa, assomiglia alla descrizione che mi hanno fatto».
«Buonasera. Lei è Agnese?».
Agnese fa un cenno con la testa accennando un timido sorriso. Non riesce a dire nessuna parola. Il suo verbo si è bloccato tra le anse delle sue labbra lasciando fluttuare tutto in un silenzio parlante. Ogni silenzio ha un suo proprio linguaggio e questo, in particolare, racconta della difficoltà e dell’imbarazzo di questa giovane donna.
«Prego si accomodi. Termino una seduta e sono subito da Lei».
Agnese resta ancorata al suo silenzio, non riesce a dire una sola parola, accenna solo un nuovo timido sorriso, che a stento si plasma nelle sue labbra. Attende il suo turno con la speranza racchiusa nel suo cuore. Ha deciso di affidarsi e fidarsi e adesso inizierà il suo andare, il suo nuovo progetto di vita che abbia cura di sé stessa.