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Giovedì, 25 Aprile 2024
Gossip Style

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A cura di Barbara Fabbroni

"Io sono Stefano, in tacchi e tubino. Mia moglie? Oggi vive la cosa serenamente"

Il racconto di Stefano Ferri, ospite della Galleria di arte Contemporanea di Arezzo in occasione della presentazione di Diario di un lockdown, di Stefano Chiassai, a cura di Liletta Fornasari e con la collaborazione di Carlo Sisi

Stefano Ferri era all’inaugurazione della nuova mostra ospitata dalla Galleria di arte Contemporanea di Arezzo. Diario di un lockdown, di Stefano Chiassai, a cura di Liletta Fornasari e con la collaborazione di Carlo Sisi. Un percorso espositivo di circa 80 opere che ci riporta indietro ai duri mesi del lockdown. Stefano Ferri con la sua delicata eleganza, la sua sensibilità profonda ha accarezzato con cura l’itinerario costruito e creato da Stefano Chiassai. Oltre a saper bene raccontare un’opera d’arte ci narra la sua dimensione esistenziale.

Caro Stefano, sei un imprenditore di successo, hai una moglie, una figlia, sei eterosessuale, ma adori i tacchi a spillo e il tubino, perché?

Per spiegare compiutamente la ragione ho dovuto scrivere un romanzo autobiografico (Crossdresser–Stefano e Stefania, le due parti di me, Mursia Editore). Però, in linea di massima, qui posso dire che questo è il mio modo di integrare la parte maschile e quella femminile. Ciascuno di noi, psicologicamente parlando, è un po’ maschio e un po’ femmina, nessuno può vivere se non avendo raggiunto il perfetto incastro fra questi due lati della sua personalità. In genere è un incastro che si raggiunge durante l’infanzia e, in seconda battuta, nell’adolescenza, non per caso età di profonde scosse interiori. In me, che non ho vissuto l’adolescenza (spiego nel libro perché), la fusione fra il maschile e femminile si è manifestata nell’età adulta. Così.

Ma tu chi sei?

Io sono Stefano. Solo Stefano. Uomo, etero, padre e marito. L’esatto contraltare di una donna in giacca pantalone e mocassini. Di nessuna si pensa che sia lesbica né se ne nega la femminilità per il solo fatto che si veste così. Il pregiudizio per cui, viceversa, un uomo in gonna e tacchi negherebbe la propria virilità è dovuto a un fatto culturale, transitorio: le tuniche al ginocchio sono state parte essenziale del guardaroba maschile per millenni, nemmeno per secoli, e nel Settecento gli uomini con lignaggio nobile portavano tacchi.

La tua passione più grande?

Oh, ce ne sono tante. La musica dei Beatles. Le macchine di grossa cilindrata. I film di Stanley Kubrick e di Quentin Tarantino. I romanzi mozzafiato.

Un libro per raccontarti, perché affidare alla narrazione la tua storia?

Ciò che è viscerale è difficile da condividere se non a valle di una “full immersion” nell’animo e nella vita. Immagina di leggere lettere d’amore di gente di cui non sai nulla: non ti farebbero ridere? Lo dice anche una canzone di Vecchioni. Ho avuto bisogno di trecento pagine per mettermi a nudo, raccontare le nefandezze che ho subito (e anche quelle che ho commesso – non sono un santo) a causa del crossdressing, così che quando, nelle ultime pagine, svelo il mistero sul perché, nessuno ride più. Ho portato il lettore dalla mia parte, l’ho incoraggiato ad ascoltarmi e capirmi a fondo. Peraltro, è un esercizio che suggerirei a tutti. Ognuno ha dentro di sé un mondo immenso da raccontare.

Qual è la tua verità?

Non è “mia” ma assoluta: che siamo tutti soltanto persone. Andremmo classificati non come uomini, donne, gay, lesbiche, trans, cross, neri, gialli ecc. bensì esclusivamente come persone, accomunate dall’appartenenza all'umanità. Le differenze di cui sopra vengono a valle e giammai possono costituire motivo di discriminazione né tantomeno di violenza.

Ognuno di noi ha in sé una parte femminile e una maschile, in te la parte femminile sembra avere la necessità di presentarsi al mondo in tutta la sua variegata declinazione?

Sì. In realtà la cosa fa notizia solo perché sono un uomo, e gli uomini hanno paura di esternare condizioni come la mia, preferiscono reprimerle, così condannandosi a una pericolosa infelicità permanente. Se una donna esibisce la sua parte maschile (e lo fanno in tantissime), nessuno dice nulla.

Cosa hai fatto per comprendere la tua natura, chi ti ha aiutato?

La psicoterapia. Ho avuto la fortuna di venire ben consigliato ed essere assegnato a una psicoterapeuta estremamente preparata, priva di pregiudizi e assai fattiva nel condurmi al fulcro della questione. Con lei ho ricostruito la mia infanzia e i processi inconsci da cui il mio carattere ha origine.

Noi viviamo in una società che crede di essere aperta ma in realtà è ancora molto bigotta. Quanto è stato difficile per te essere te stesso?

Tremendo. La paura dello stigma sociale mi ha travolto infanzia, adolescenza e giovinezza, inducendomi a rimuovere per venti interminabili anni la mia attrazione per gli abiti femminili. Avevo nove anni quando avvertii il desiderio per la prima volta. Ne avevo ventinove quando accettai di lasciarmi andare, ma nemmeno lì fu semplice, anzi! Ci misi ulteriori quattordici anni per divenire crossdresser a tempo pieno. Arrivai alla meta alla vigilia dei quarantatré. Ora sono felice, ma i decenni buttati via in abiti maschili non me li ridarà nessuno.

Quando hai deciso di indossare abiti del sesso opposto?

Non c’è una data, è stato un progressivo avvicinarmi. Quando indossai il mio primo paio di infradito di vernice non avrei mai immaginato sino a dove mi sarei spinto. Oltretutto erano da uomo (la moda della seconda metà degli anni Novanta era molto effeminata). Idem quando misi la mia prima camicia in organza, sempre da uomo. Nemmeno quando acquistai la mia prima gonna avevo le idee chiare, perché era una gonna da uomo e interpretavo il mio desiderio come la stravaganza di un dandy. Se ripenso a quei tempi, oggi sorrido e mi rendo conto di come ciò che riguarda il vestire sia soggetto a convenzioni artificiose, speciose e inutili.

Sei stato penalizzato per questa tua scelta?

In parte sì, in parte no.

Perché?

Sì, perché ovviamente ho subito lo stigma di una società a quell’epoca totalmente impreparata a uno come me. Dirigevo una rivista e dovetti licenziarmi. No, perché questo cambiamento mi ha aiutato a trovare la mia vera vocazione, quella del PR, e a tante aziende coraggiose e in anticipo sui tempi è parso strategico affidare le proprie relazioni a una persona che, a valle della propria competenza, risultasse indimenticabile al primo sguardo.

I tuoi genitori ti sono stati vicino?

Mia mamma è morta senza avermi conosciuto in abiti femminili. Mio padre invece mi sorprese. Da premettere che non ero affatto sicuro che l’avrebbe presa bene, per cui mi condannai a dieci anni di censura quando lo andavo a trovare. Indossavo sempre cose da donna ma neutre, tipo jeans e maglietta. Poi un giorno (e lo racconto nel libro) le vicende della vita mi condussero da lui senza veli, avevo troppi casini per ricordare di cambiarmi, e notai che non batté ciglio. Tempo dopo gliene chiesi conto e lui mi rispose: «Stefano, tu hai una figlia che da grande ti lascerà per condurre la sua vita adulta e inizierai a frequentarla col contagocce come a me è capitato con te. Ma credimi, se ti capitasse di vederla per dieci anni con un unico paio di jeans addosso, qualche domanda te la porresti anche tu».

Tua moglie come vive questa tua peculiarità?

Oggi la vive serenamente. Ma ha avuto bisogno di tanto tempo, dieci anni e passa, per farsene una ragione. Non posso biasimarla, perché a me per primo di tempo ne occorse tantissimo, ben più di quanto ne sia occorso a lei.

E tua figlia?

Con mia figlia il discorso è diverso. È stata abituata sin dalla nascita – e intendo proprio letteralmente dall’istante in cui è venuta al mondo – alla mia presenza come crossdresser; dunque, per lei un papà in gonna e tacchi è sempre stata la normalità. Un giorno, quando aveva sei anni e mezzo, mi fulminò con questa frase: «Papà, voglio che tu sappia che anche se ti vesti da donna per me sei una persona normale, e soprattutto un papà meraviglioso». Auguro a tutti di provare anche solo la metà di quello che provai io in quell’istante.

Con questo non voglio dire che siano state solo rose e fiori. Un momento un po’ difficile, diciamo di transizione, con Emma lo passai. Fra la terza e la quarta elementare mi chiese di non uscire mai dall’auto quando la andavo a prendere a scuola. Ci stava, e sia pure con amarezza dissi di sì, ben conscio di quanto grandi siano i rischi di bullismo. Poi… è arrivata la pandemia e il problema s’è tristemente risolto, mentre alla ripresa mi sono ritrovato una ragazza giocoforza diventata adulta, coi coetanei pure cresciuti in fretta per gli stessi motivi, e allora lì è venuta fuori la personalità vera della generazione di Emma, la generazione dei “gender free”, che fanno vincere i Maneskin ovunque sulla terra, che in uno come me non trovano nulla di strano.

Un sogno nel cassetto?

Vivere dei miei libri. So di condividere questo sogno con milioni di persone, tanti siamo noi scrittori in Italia.

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