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A cura di Lucrezia Lombardo

Lucrezia Lombardo nasce ad Arezzo nel 1987. Dopo la maturità classica si laurea, con il massimo dei voti, in Scienze filosofiche a Firenze, lavora quindi come curatrice, specializzandosi con vari corsi di perfezionamento. Attualmente l’autrice dirige una galleria d'arte contemporanea ad Arezzo e scrive stabilmente per la rivista inetrnazionale "La Bibliothèque Italienne", insegna Storia e Filosofia presso un liceo e collabora con vari atenei privati come docente di Storia della filosofia contemporanea. Oltre ad aver ricevuto importanti premi e riconoscimenti letterari, Lucrezia ha pubblicato il saggio L’Alunno (Divergenze, 2019), le raccolte poetiche La Visita (Giulio Perrone, 2017), La Nevicata (Il Seme Bianco, Gruppo Elliot 2017), Solitudine di esistenze (Giulio Perrone, 2018), Paradosso della ricompensa (Eretica, 2018), Apologia della sorte (Transeuropa, 2019), In un metro quadro (Nulla die, 2020), la raccolta di racconti Scusate, ma devo andare (Porto Seguro, 2020) ed ha curato la silloge Elegia Ambrosiana (Divergenze, 2021) con lo scrittore Raul Montanari.

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"L'inutilità e la sua forza dirompente", una riflessione sulla poesia

"In un mondo dove tutto deve essere considerato efficiente e utile la poesia costituisce la forma più inutile tra tutte le arti: essa non ha fini, non persegue scopi etici, moralistici, o politici, se è fatta con autenticità"

L’inutilità è un concetto affascinante, specie per il disappunto che suscita, ma partiamo da suo contrario, dall’utilità che fonda “l’antropologia psichica” del soggetto contemporaneo e che è uno dei valori irrinunciabili della nostra società produttivista ed incentrata sul “fare”. L’appello collettivo all’utilità coinvolge ormai tutti gli attori sociali, incluso l’individuo, che è parte del
macro-meccanismo ed è quindi chiamato a dare il proprio contributo in termini di risultati.
L’utile - che è forse la categoria “politico-economico-culturale” fondante attualmente tutte le altre - indica infatti l’efficienza di un processo che ha per fine il raggiungimento di uno scopo, tuttavia, nella misura in cui per l’uomo odierno inserito è fondamentale avere degli obiettivi (socialmente riconosciuti) da raggiungere, egli si declassa, da solo, al ruolo di strumento. Alla luce di un’analisi attenta, il significato del termine “utilità” si applica anzitutto agli strumenti da impiegare per perseguire un risultato e, in tal senso, sono strumenti il denaro, il linguaggio, la tecnologia, il sapere e così via. Sono strumenti, cioè, tutti gli elementi che perdono il loro statuto di soggetti, per trasformarsi in mezzi funzionali alla realizzazione di un fine eteronomo. Se dunque la dimensione “pratica-fattuale”, correlata all’utile, diventa il perno attorno a cui ruotano lo sviluppo industriale, l’evoluzione tecnica, il consumismo e le attuali democrazie, questo comporta una progressiva perdita della centralità dell’uomo che, sempre di più, è valutato non alla luce della propria unicità personale, ma per i risultati che raggiunge socialmente e che gli conferiscono un ruolo nel meccanismo collettivo.
Per definizione, il senso dell’esistenza di uno strumento non si basa sullo strumento stesso, ma è sempre correlato a qualcos’altro. In quest’ottica, il soggetto finisce con l’essere concepito come e un mero oggetto ed al pari di un ingranaggio che deve continuare a produrre. Il bene collettivo, identificato con il funzionamento globale del macro apparato, sacrifica il bene
individuale, trasformando l’uomo in un soggetto degno di stima ed approvazione soltanto laddove assolve allo scopo sociale che gli compete. Ed ecco che i pazzi, i senza tetto, i disoccupati, i disabili, i reietti sono categorie sociali oggi più che mai avversate al sistema di potere, che si camuffa di filantropismo per avendo, per obiettivo, la spersonalizzazione dei singoli, di modo che,
perdendo la consapevolezza della loro specificità, possano adattarsi al ruolo strumentale di oggetti che l’utilità (sociale) vuole loro attribuire. La corrente filosofica dell’Utilitarismo, del resto, c’insegna da principio che la felicità non è concepibile se non in quanto “felicità della maggioranza”. La felicità del soggetto contemporaneo, entro tale logica, finisce così con lo scarseggiare, mentre l’aspettativa e gli incessanti risultata da raggiungere, erodono persino l’ultimo baluardo di umanità e solidarietà che resta. Un’esistenza incentrata sull’efficienza richiede infatti che vengano sacrificati il silenzio, la riflessione, il tempo vuoto e l’inoperosità, a partire dalla quale nasce la ricerca di se stessi ed è a questo livello che si manifesta l’inutile come ultima possibilità che resta per una felicità ritrovata.
L’inutile, infatti, altro non è che ciò che eccede e che non si fa incasellare dalla logica produttivista odierna. L’inutile altro non è che il tempo che ciascun individuo deve recuperare per se stesso, praticando l’otium e la metriotes di epicurea e oraziana memoria. Nel mondo classico, l’otium era il tempo libero dagli impegni della vita pubblica e politica ed incarnava il momento in cui l’individuo cessava d’indossare maschere e di agire, per ritirarsi nel proprio nido - in compagnia di se stesso e di pochi amici intimi- a studiare, contemplare, riflettere. Nell’otium - oggi aborrito perché considerato come pratica parassitaria- l’uomo si dedicava alle priorità che eccedevano la sussistenza materiale e, in questa condizione di riposo dell’agire e di attività dell’anima, s’inseriva la metriotes, o “giusto mezzo”, che implicava la capacità di accettare il giusto limite per sostare, con gioia e gratitudine,
nel presente, senza ostinazione nella ricerca di vie di fuga irreali. La metriotes e l’otium costituiscono due degli elementi che compongono l’inutilità e, dunque, la via che l’uomo deve intraprendere per liberarsi dall’infelicità che la frenesia contemporanea comporta, dominata com’è da maschere, aspettative, prestazioni.
Attraverso l’inutile, il soggetto si sottrae all’oggettificazione dall’efficienza e dell’utilità e riscopre e stesso, ritrovando quelle capacità creative represse dal mondo tecnico. 
La poesia costituisce, in questo senso, la forma più inutile tra tutte le arti: essa non ha fini, non persegue scopi etici, moralistici, o politici, se è fatta con autenticità. I risultati economici che la poesia porta sono considerati dal mercato odierno pressoché nulli e questo, se da un lato la condanna alla marginalità, dall’altro la rende un’arte libera, che non necessita di piegarsi ai dettami
del potere ed ai gusti imposti dalle mode. L’inutilità della poesia, il suo non sottostare a scopi immediati e visibili, costituisce il punto di rottura della logica efficientista. I versi, nel loro prender forma, eccedono infatti le aspettative sociali, per disegnare universi solo intuitivamente afferrabili.
Il fatto che ciò che è comunemente considerato “inutile” si sottragga all’omologazione a cui sono sottoposti tutti i linguaggi odierni e persino il pensiero, significa che la via per la rivoluzione (culturale) di cui tanto si è parlato e blaterato, passa necessariamente dalla capacità di fare a meno dell’ossessione del riconoscimento sociale che affligge la maggior parte degli artisti, rendendoli
assetati di successo e narcisisti fino al parossismo.
L’inutilità è dunque la categoria che, più d’ogni altra, è in grado di sospendere la dinamica disumanizzante del nostro presente, un’epoca che sacrifica la felicità dei singoli in nome di un bene generale che, in realtà, è bene unicamente per coloro che detengono le regole del gioco. 
Nel tentativo di cantare l’inutilità e la sua dirompente forza, è nata la mia ultima raccolta poetica, “Amor Mundi”, in uscita nei prossimi giorni con Eretica, una delle poche realtà editoriali italiane che hanno autenticamente a cuore la qualità. “Amor Mundi” vuole essere un grido disperato e combattivo, una ricerca travagliate del bene, un’analisi spietata dell’uomo dei nostri giorni e del suo sentire, ma, soprattutto, “Amor Mundi” è la scoperta della bellezza delle piccole cose, di quelle “cose inutili” che il nostro tempo non comprende più (come l’amicizia autentica, l’amore duraturo, il contatto con la natura, la dimensione sacra della vita) e che, invece, potrebbero costituire la via per una felicità ritrovata.

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