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Arezzo da amare

Arezzo da amare

A cura di Marco Botti

Quegli orti murati che una volta all'anno tutti potevano ammirare. Così iniziava la primavera di Arezzo

La storia e le meraviglie della villa degli Orti Redi nella splendida cornice della periferia est di Arezzo

L’antica via di Staggiano, dal 1930 ribattezzata nel suo primo tratto via Fonte Veneziana e nella seconda parte via Francesco Redi in onore al grande medico, naturalista e letterato nato nel 1626, oggi è parte integrante della città, ma fino a un secolo fa era connotata solo da una bellissima campagna e da splendide dimore gentilizie, incastonate nelle colline a est di Arezzo.

La più celebrata e conosciuta è la Villa degli Orti Redi alle pendici del colle di San Fomagio, fatta costruire da Jacopo Fossombroni alla fine del Cinquecento, appartenuta ai Nardi dal 1628 e comprata per 6.500 scudi nel 1659 da Gregorio Redi, medico di fama alla corte medicea e padre di Francesco Redi, che fu negli anni fondamentale per aiutare il genitore a pagare l’acquisto e finanziare nuovi lavori. Alla morte di Gregorio, nel 1675, passò al figlio che, preso dagli impegni fiorentini, non ci visse mai ma ebbe sempre a cuore il luogo. La gestione fu affidata al fratello Giovan Battista, spesso abbreviato nei documenti come Gio Batta, che nel 1663 soprintese ai lavori di restauro e abbellimento degli orti con alberi da frutti e ornamentali, nuovi vialetti e il consolidamento delle mura perimetrali e della ragnaia.

La villa degli Orti Redi

La villa si sviluppa su tre piani e si fa ancora ammirare per la sua imponenza. Sulla destra è connotata da una torre realizzata a partire dal 1672, che supera il resto del complesso con un’elegante altana. Un rialzamento analogo doveva essere realizzato sulla sinistra, ma l’ala rimase solo nei progetti per questioni economiche. La dimora fu restaurata nel primo Settecento dal nipote Gregorio Redi, a cui Francesco aveva lasciato l’eredità nel 1697, non avendo figli. Dopo Gregorio, al quale si devono vari interventi e molte decorazioni interne con scene religiose e profane, l’edificio passò nel 1748 al primogenito Ignazio e nel 1784 a Gregorio Maria. Nel 1808 egli lasciò la proprietà al fratello Francesco Saverio Redi, uomo di chiesa, che intorno al 1815 fece restaurare l’ingresso e decorare alcuni ambienti in stile neoclassico.

Nel 1820, con la morte di quest’ultimo, si estinse il ramo di Ignazio Redi. Seguì un lungo periodo di frammentazione della proprietà tra varie famiglie, finché nel 1941 la villa, in quel momento in mano a Lucia Monnanni Marzi, venne acquistata dalle Carmelitane Scalze fiorentine che la adeguarono nel giro di due anni a comunità di clausura. L’acquisto non fu casuale, poiché se Francesco Redi era stato il personaggio maschile più noto della nobile famiglia aretina, Santa Teresa Margherita Redi lo era stata per il lato femminile. Ella era nata nel 1747 e prima di prendere i voti si chiamava Anna Maria. Fin da piccola trascorse nella dimora di campagna le sue giornate estive, finché nel 1764 prese i voti ed entrò nell’Ordine della Beata Vergine del Monte Carmelo a Firenze, dove morì di peritonite nel 1770. Ancora oggi il monastero è gestito con amore dalle monache.

Dei rinomati orti e giardini murati della villa purtroppo non rimane quasi nulla. Si racconta che erano ricchi di statue, fontane e splendide piante. Fino agli inizi del Novecento c’era l’usanza, il primo giorno di Quaresima, di aprirli al popolo che poteva così passeggiarci come fosse un parco pubblico. Era un modo tutto aretino per dare il benvenuto alla primavera.

Anche il giardino pensile di fronte alla dimora e quello su retro sono lontani parenti di quelli che impreziosivano il complesso. Poco oltre il cancello d’ingresso si nota l’edificio che racchiude il ninfeo, luogo di refrigerio durante la bella stagione grazie alle acque che sgorgavano dalle rocce e cadevano in modo scenografico in una vasca. Fu voluto dai Fossombroni e inizialmente era un loggiato, di cui si riconoscono ancora le colonne tamponate per volere di Gregorio Redi nella prima metà del Settecento.

All’interno della villa si trova una piccola cappella per le monache, un’altra seminterrata venne fatta realizzare fuori dall’edificio agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, ma il luogo di culto più noto è a sinistra del monastero, dove si ammira il delizioso oratorio esterno, fatto costruire da Jacopo Fossombroni. Quando nel 1602 fu terminato, venne incaricato di affrescarlo l’aretino Teofilo Torri con l’aiuto di Valerio Bonci, che eseguirono alcune “Storie della vita di San Francesco”. Nella volta si trova quella più interessante, ovvero l’episodio della “Cacciata dei diavoli da Arezzo”, reso celebre da Giotto ad Assisi alla fine del Duecento, ma scena che si trova rappresentata in diverse epoche in varie parti d’Italia. La veduta che fa da sfondo alla vicenda francescana è quella di Arezzo agli inizi del Seicento, con lo skyline ancora connotato dai ruderi del duecentesco Palazzo del Popolo in cima all’odierna via dei Pileati, smantellato gradualmente a partire dal 1539.

Curiosa è la tela nell’altare, una “Madonna con il Bambino e santi” sempre del Torri. In origine una delle figure era San Giacomo il Maggiore, il patrono di Jacopo Fossombroni, ma Gregorio Redi, che invece aveva come santo di riferimento San Gregorio Magno, circa un secolo dopo lo fece modificare nel papa santo “rivestendolo” con abiti diversi.

Al luogo è legata anche una singolare diatriba tra la famiglia e le autorità cittadine sullo sfruttamento idrico della zona. Giorgio Vasari racconta infatti che Jacopo del Casentino fu incaricato, a metà del Trecento, di progettare un nuovo acquedotto per Arezzo, che incanalava  l’acqua, come i precedenti, dall’Alpe di Poti. Nell’edizione delle sue “Vite” del 1568 egli riporta che l’artista di Pratovecchio fece terminare la condotta alla Fonte Veneziana.

Nella prima metà del XVI secolo l’acquedotto trecentesco era ormai ridotto in pessimo stato e alla fonte non arriva quasi più nulla. Tra i colpevoli del disservizio Vasari indicò anche quei facoltosi aretini che sfruttavano le risorse idriche per i loro comodi, come annaffiare gli orti delle ville. Tra questi c’erano i Fossombroni, proprietari di ampi terreni nell’area almeno dagli anni Venti di quel secolo. Jacopo Fossombroni, nella seconda metà del Cinquecento, arrivò persino a restaurare a sue spese un tratto delle vecchie condutture per deviare l’acqua durante il passaggio nella sua proprietà.

Come scrivono in maniera dettagliata Anna Bartolini e Patrizia Fazzi nel loro libro “Villa degli Orti Redi. Un giardino aretino da riscoprire”, la questione dette vita, dal 1584, a un lungo contenzioso tra pubblico e privato che si risolse con il cosiddetto “Tollero degli Orti Redi”, ovvero un foro nell’acquedotto del diametro di una moneta che lasciava passare l’acqua in maniera centellinata verso i fondi dei Fossombroni. A loro la soluzione andava bene, alla città un po’ meno, soprattutto nei mesi caldi.

Con la realizzazione dell’Acquedotto Vasariano, i cui lavori si conclusero nel 1603, il problema idrico fu risolto ma la controversia fu chiusa solo tra il 1869 e il 1870, quando Comune e Fraternita dei Laici, grazie prima a un decreto regio e poi a un decreto prefettizio, privarono i proprietari di allora dell’uso dell’acqua per potenziare le condotte della città in espansione. 

È una delle tante storie curiose collegate a questo posto di straordinaria bellezza, da secoli nel cuore degli aretini.

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