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Arezzo da amare

Arezzo da amare

A cura di Marco Botti

Sulle tracce di Montano d'Arezzo, tra San Domenico e Napoli

Il pittore fu quasi ignorato in Toscana, ma celebrato a Napoli e dintorni come figura chiave nell’evoluzione della pittura in Campania a cavallo tra Duecento e Trecento

Quando i meriti e i successi di una persona non sono riconosciuti nella terra di origine, si usa la locuzione latina “Nemo propheta in patria”. Questa espressione calza a pennello per il pittore Montano d’Arezzo, quasi ignorato in Toscana e celebrato a Napoli e dintorni come figura chiave nell’evoluzione della pittura in Campania a cavallo tra Duecento e Trecento.

Se affermassimo che l’aretino fu l’artista per eccellenza della corte napoletana prima dell’arrivo di stelle di prima grandezza come Pietro Cavallini, Giotto e Simone Martini, in pochi ci darebbero contro. Vediamo perché, ripercorrendone le imprese.

In mancanza di documenti, il primo periodo di vita di Montano è solo ipotizzabile. Egli nacque ad Arezzo, forse negli anni Sessanta del Duecento. Nella prima metà degli anni Ottanta di quel secolo, come tanti novelli pittori toscani e umbri, viaggiò ad Assisi per carpire i segreti dei principali autori del tempo, alle prese con la decorazione della basilica superiore di San Francesco. Per cause incerte, di lì a poco Montano si trasferì a Napoli, alla corte angioina, e fu uno dei primi se non il primo a esportare le straordinarie novità pittoriche tosco-umbre che scaturirono dalle pareti assisiati.

Sulle tracce di Montano d'Arezzo

Le ipotesi del suo spostamento sono diverse. Come altri artisti, Montano potrebbe aver scelto di partire in solitario verso il sud, vedendo il viaggio come un’esperienza formativa, oppure potrebbe aver approfittato del passaggio di truppe angioine dirette dalla Francia verso Napoli per accodarsi a loro e viaggiare in sicurezza. Altra supposizione è che Montano, già apprezzato, possa essere stato consigliato all’arcivescovo di Napoli Filippo Minutolo, che aveva molti contatti con l’ambiente toscano, quando decise di affrescare la sua cappella nel duomo partenopeo.   

Fatto sta che tra il 1286 e il 1290, sotto il regno di Carlo II d’Angiò, Montano d’Arezzo venne incaricato di dipingere la Cappella Minutolo con alcune “Storie di santi” e una “Crocifissione”, oggi solo in parte conservate, che risentono della lezione del fiorentino Cimabue, attivo ad Assisi almeno dal 1278 e già ammirato dal pittore nella chiesa aretina di San Domenico, dove aveva lasciato lo splendido “Crocifisso” su tavola alcuni anni prima.

Nella prima metà degli anni Novanta del XIII secolo Montano fece un nuovo viaggio in terra francescana, dove nel frattempo erano giunte le innovazioni del giovane Giotto. Nelle pitture successive dell’aretino in Campania si scorgono infatti molti aggiornamenti stilistici, a partire dalla sua opera più famosa, l’imponente “Mamma Schiavona” di Montevergine, ovvero un’enorme “Madonna in trono con il Bambino” che domina l’altare della cappella imperiale del santuario avellinese.

Secondo lo storico dell’arte Pierluigi Leone de Castris, la tavola fu eseguita tra il 1296 e il 1298 su commissione di Filippo  d’Angiò, principe di Taranto e figlio del re. Fu proprio de Castris, dopo una campagna di restauri avviata nel 1980 dalla soprintendenza napoletana, a restituire all’artista aretino vari lavori. Egli ebbe modo di approfondire la figura di Montano nei decenni a seguire con alcune preziose pubblicazioni, a partire dal capitale “Arte di corte nella Napoli angioina” del 1986.

Per molto tempo l’attribuzione della “Mamma Schiavona” fu contesa tra Montano e Pietro Cavallini, ma oggi è assegnata quasi all’unanimità all’aretino. Un mito che ha accompagnato a lungo l’opera sostiene persino che il volto della Madonna è opera di San Luca. L’ultimo restauro del 2012 ha ribadito che il legno del clipeo che ospita la testa è coevo del resto del dipinto.

Un’altra tradizione racconta di due amanti gay del medioevo scoperti in atteggiamenti amorosi e per questo denudati e incatenati per farli morire di freddo nei boschi di Montevergine, ma salvati da un’apparizione mariana. Per questo motivo il santuario e la sua opera più nota sono un punto di riferimento da secoli anche dei “femminelli”, nella cultura popolare napoletana i maschi con atteggiamenti femminili, e oggi pure della comunità LGBTQ+.

Tornando alle opere eseguite da Montano d’Arezzo a Napoli, celebre è il ciclo mariano ormai frammentario nel transetto destro della chiesa domenicana di San Lorenzo Maggiore, realizzato intorno al 1306 per Carlo II d’Angiò, del quale rimangono la “Natività” e la “Dormitio Virginis”, ovvero il trapasso di Maria. In una lunetta esterna del portale, fra la chiesa gotica e il chiostro del convento, si trova invece una “Madonna con il Bambino e un donatore” databile al 1310. Coeva degli affreschi del transetto sarebbe infine la pala d’altare con la “Madonna in trono con il Bambino”, conservata nel Museo di San Lorenzo.

Tante le opere perdute. Nel 1305 l’aretino venne pagato dal sovrano per gli affreschi di due cappelle del Castel Nuovo, ovvero il Maschio Angioino. Nel 1308 egli riscosse per un “Crocifisso” dipinto su tavola, commissionato ancora dal re e donato alla chiesa di San Ludovico di Aversa. Nello stesso anno fu ricompensato per gli affreschi nel refettorio e nella sala capitolare dell’edificio religioso. Per l’arcivescovo Giacomo da Viterbo eseguì una “Madonna con santi” nella cappella di San Marciano della cattedrale. Ancora per il principe Filippo, nel 1310, una replica della “Madonna di Montevergine” e gli affreschi nella cappella e nel portico del palazzo cittadino, incarichi che portarono in premio dei terreni. Di tutto questo non è rimasto niente.

Nei documenti Montano appariva come “fedele” di Carlo II, “familiare” di Filippo e dopo il 1309 anche “familiare” del nuovo re Roberto d’Angiò. Erano titoli onorifici che dimostravano la considerazione di cui godeva a corte “Magister Montanus de Aretio pictor”, la cui attività a Napoli è documentata fino al 1313.

E ad Arezzo cosa rimane di questa fondamentale figura? La sua partenza in età giovanile e la perdita di molti affreschi e tavole due-trecentesche, vuoi per l’incuria, vuoi per la trasformazione degli edifici sacri nei secoli, vuoi per le spoliazioni ottocentesche, rende la ricerca assai difficile. Nella basilica di San Domenico, però, De Castris individuò anni fa due affreschi deteriorati attribuibili a Montano poco oltre la metà della navata. Il primo si trova nella parete sinistra, in alto. Rappresenta i “Santi Pietro, Paolo e Domenico” con i loro rispettivi nomi, sormontati da sottili arcate. Di San Domenico rimane purtroppo solo la didascalia. L’altra opera, nella parete opposta, mostra la malridotta “Predica del beato Ambrogio Sansedoni” in cui il frate domenicano senese è affacciato a una balaustra. Un gruppo di persone in basso lo ascolta.

Nel 2010 la restauratrice e storica dell’arte aretina Isabella Droandi propose una nuova attribuzione per il pittore, ovvero un affresco frammentario della “Madonna con il Bambino e santi” nella chiesa di Santa Maria al Castello di San Donato a Sestino.

Andare sulle orme dell’artista medievale è un modo per riscoprire anche nella sua terra natale Montano d’Arezzo, anello ideale tra il Duecento aretino e i primi vagiti della scuola locale del Trecento. Non a caso sono state riconosciute delle affinità tra i volti delle sue Madonne con quelle di Gregorio e Donato d’Arezzo, anch’essi esportatori del proto-giottismo in una precisa area geografica d’Italia. Ma questa è un’altra storia.

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