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Arezzo da amare

Arezzo da amare

A cura di Marco Botti

Le tre Cacciate dei diavoli da Arezzo in città

Pareti di chiese, chiostri di conventi, musei e biblioteche riportano la vicenda narrata per la prima volta nella “Leggenda Maggiore” di Bonaventura da Bagnoregio

Episodio tra i più noti della vita di San Francesco, la “Cacciata dei diavoli da Arezzo” si trova rappresentata in diverse epoche in varie parti d’Italia. Pareti di chiese, chiostri di conventi, musei e biblioteche riportano la vicenda narrata per la prima volta nella “Leggenda Maggiore” di Bonaventura da Bagnoregio, biografia del santo assisiate scritta tra il 1260 e il 1263, secondo la quale Arezzo fu liberata dai demoni che seminavano discordia, causando continue lotte intestine.

Solitamente nella scena si vede il frate Silvestro davanti alla città che alza la mano per ordinare ai diavoli di andarsene e dietro di lui San Francesco in preghiera. Gli affreschi più celebri sono quelli eseguiti da Giotto nella basilica superiore di Assisi (PG) tra il 1296 e il 1300 e da Benozzo Gozzoli nella basilica di Montefalco (PG) nel 1452, ma anche ad Arezzo esistono ancora tre siti che conservano la raffigurazione dell’evento e per i più curiosi potrebbero trasformarsi in un itinerario che unisce la periferia orientale a quella occidentale, passando per il cuore cittadino.

Le tre Cacciate dei diavoli da Arezzo in città

Il primo luogo che prendiamo in esame è la Villa degli Orti Redi lungo l’odierna via Redi, fatta costruire da Jacopo Fossombroni alla fine del Cinquecento. Nel 1628 passò ai Nardi e nel 1659 a Gregorio Redi, padre del celebre medico, scienziato e letterato Francesco, che la ereditò nel 1675 e a sua volta la lasciò nel 1697 al nipote Gregorio. L’edificio su tre piani si fa ancora ammirare per la sua imponenza ed è giunto ai nostri giorni attraverso modifiche e vari passaggi di proprietà, l’ultimo dei quali, nel 1941, lo assegnò alle Carmelitane Scalze di Firenze che adibirono la villa a convento.

A sinistra della dimora Jacopo Fossombroni fece realizzare una deliziosa cappella esterna. Quando nel 1602 fu terminata, incaricò il pittore aretino Teofilo Torri di affrescarla con alcune “Storie della vita di San Francesco”. Per l’impresa il Torri si avvalse della collaborazione di Valerio Bonci. Il ciclo degli Orti Redi denota ancora una certa dipendenza dei due artisti dal tardo manierismo, ma anche aggiornamenti allo stile controriformato. Nella volta della cappella è presente l’episodio della “Cacciata dei diavoli da Arezzo”, che mostra una delle più famose e complete vedute della città a inizio Seicento.

Tra i particolari più interessanti spiccano Porta Santo Spirito e più in alto il Palazzo del Popolo, realizzato tra il 1270 e il 1278. Nel 1337 l’imponente edificio fu dotato di una torre, abbattuta nel 1539 allorché fu necessario liberare il campo visivo per l’artiglieria della fortezza medicea in costruzione. Il resto venne smantellato lentamente e nel XVII secolo era un magnifico rudere che continuava a connotare lo skyline urbano. Del palazzo oggi rimane poco e nulla nei giardini del Praticino.

Da Via Redi entriamo nel centro storico per giungere al Palazzo della Fraternita dei Laici di Piazza Grande, meta della seconda tappa. Il museo interno ospita alcune opere di proprietà dell’Azienda USL Toscana Sud Est provenienti dagli antichi ospedali. Tra queste si segnalano due tele laterali realizzate nel 1636 dall’aretino Bernardino Santini, che in origine si trovavano, assieme a un terzo dipinto centrale scomparso, nell’oratorio del lebbrosario di San Lazzaro.

La struttura ospedaliera di via Romana, fondata nel XIII secolo dalla Comunità di Arezzo, era la più attrezzata per accogliere i lebbrosi della città e del territorio. Il 3 dicembre 1623, avendo ormai perso da tempo la sua funzione originaria per l’assenza di casi di lebbra, il lazzaretto fu riunito all’ospedale di Santa Maria del Ponte (o Sopra i Ponti), del quale divenne un convalescenziario dove le persone in via di guarigione concludevano la loro degenza. Quando nel 1784 l’ex lebbrosario fu ceduto alla famiglia Dini, i due oli furono trasferiti nella chiesa dell’ospedale principale. Nel 1788 i due dipinti figuravano abbinati a una “Pietà tra i santi Donato vescovo e Stefano protomartire”, realizzata nel 1630 sempre da Santini. Nel 1932 le tre tele erano nella sala consiliare del nosocomio, spostato ormai da sette anni dall’antica sede di Corso Italia a quella nuova di via Fonte Veneziana. In seguito furono destinate a impreziosire gli uffici amministrativi dell’Azienda USL e quindi la biblioteca all’interno del nuovo ospedale di San Donato inaugurato negli anni Novanta del secolo scorso, prima del loro trasferimento del 2012 in Piazza Grande.

Il primo dei due dipinti laterali raffigura la “Resurrezione di Lazzaro”, mentre l’altro fino ad alcuni anni fa veniva indicato  nei testi come “Predicazione di San Francesco”. I piccoli demoni svolazzanti in cielo e lo scorcio cittadino sullo sfondo, con la mole del Palazzo del Popolo, tuttavia rimandano in modo inequivocabile alla “Cacciata dei diavoli da Arezzo”.

Da Piazza Grande scendiamo lungo Corso Italia e quindi proseguiamo in via Vittorio Veneto per raggiungere la chiesa di Sant’Antonio Abate, ultima fermata del nostro itinerario dedicato ai diavoletti seminatori di zizzania. L’edificio sacro fu eretto intorno all’XI secolo, ma nel XII secolo subì un totale rinnovamento in stile romanico.

Nel 1767 Arezzo fu investita da una tremenda epidemia di tifo petecchiale e il luogo venne utilizzato per la sepoltura di 97 vittime della malattia, come ricorda anche un’iscrizione interna. Tra il 1778 e il 1779 si conclusero i lavori di restauro e a quel periodo si fanno risalire anche gli affreschi quasi del tutto persi dell’aretino Liborio Ermini.

Essi rappresentavano “Sant’Antonio in gloria e le storie del santo” nella calotta absidale, “Tobia e Tobiolo nell’atto di seppellire i morti” nella parete destra e infine la “Cacciata dei diavoli da Arezzo” nella parete sinistra. Dell’episodio francescano in questo caso rimane ben poco, se non la lunga iscrizione incisa sulla pietra che ancora lo racconta.

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