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Stefano Buttafuoco racconta la malattia del figlio: "Un cammino nuovo"

Intervista di Barbara Fabbroni al giornalista e conduttore Rai

La storia di Brando narrata dal suo papà Stefano Buttafuoco, giornalista Rai e conduttore, è una narrazione intensa, profonda, emozionante. Una cosa è certa, per poter condividere il viatico con queste creature, l’unico cammino possibile non è quello per vedere nuovi mondi ma cambiare occhi per conoscere un cammino nuovo che si rende perfetto nella sua imperfezione. Questo è il difficile sentiero di Stefano Buttafuoco e della sua famiglia. Stefano lo racconta in questa intervista.

La vita è imprevedibile, tu ne sai qualcosa?

La vita è imprevedibile … non pensavo fino a questo punto. La mia vita fino all’avvento di Brando era una vita molto leggera, piena di soddisfazioni al lavoro ma soprattutto a casa. Una famiglia perfetta. La famiglia del mulino bianco. Sono un grande appassionato di sport, ha sempre fatto da contorno a una vita tanto felice quanto allegra e spensierata. Con Brando c’è stato uno tsunami, un terremoto imprevedibile e impensabile, che ha destabilizzato tutti gli equilibri.

Cosa avete fatto per contenere lo tsunami?

Abbiamo iniziato tutto daccapo.

Sei ancora uno spettatore nella vita di Brando?

No! Qualcosa è cambiato. Volevo intitolare il libro: “Lo spettatore”.

Perché?

Perché dal primo giorno che mi hanno dato la diagnosi di Brando il genetista ricordo che disse: “questa è la diagnosi, coraggio, in bocca al lupo” e nulla più. Non c’era alcuna maniera di intervenire.

E poi?

Ho iniziato a vivere una vita dove tutto scorreva velocemente. C’è stata una rapida evoluzione della situazione. In quel momento mi sono sentito uno spettatore. Uno spettatore che vede la vita degli altri e mi torna in mente la serenità che anche io avevo. Adesso, apprezzo la semplicità delle cose, l’ho sempre apprezzata tantissimo, però vedendola negli altri da spettatore mi accorgo che è tutto molto più complicato.

Quanto è importante ridimensionare o comprendere?

Sono due concetti molto diversi. Nel mio libro ridimensionare è legato all’esperienza che con Brando mi sono dovuto spogliare di molte sovrastrutture. Ho scoperto una dimensione che non pensavo di avere. Una dimensione più spirituale senza sovrastrutture.

Quando hai capito di non avere più le sovrastrutture?

Me ne sono accorto al lavoro, con le persone, in tutto quello che è il mio approccio alle cose, agli eventi, alle situazioni. Non ho tempo da perdere, ho troppe cose da fare. Non posso fermarmi a pensare a cose insignificanti, la mia vita adesso è pianificata. Oltre a tutto ciò che facevo prima c’è Brando che occupa un posto speciale ma impegna molto, è come fare cento lavori insieme.

Cosa accade quando ci si rialza?

Diventi progettuale. Ho costituito un’associazione dedicata alla ricerca medica sulle malattie genetiche.

Come si chiama l’associazione?

L’associazione si chiama: Unici.

Perché hai deciso di crearla?

Nessuno fa ricerca. Telethon farà un bando di concorso sulla mutazione genetica di Brando, sarò io a finanziare il progetto di ricerca. Questo è il motivo per cui ho dovuto fare velocemente un’associazione, per poter raccogliere qualche fondo per questa ricerca, laddove possano esserci. Lo sforzo economico è significativo, il contratto firmato con Telethon prevede una cifra cospicua.

Come è nata l’idea di scrivere un libro?

L’ho scritto per me, non ho mai pensato di pubblicarlo, poi solo in un secondo momento, dopo averne parlato con un mio caro amico, ho superato lo scetticismo che mi faceva pensare che alla gente non sarebbe interessato; invece, in venti giorni Rai libri l’ha voluto pubblicare. È un libro scritto in diretta lungo il percorso dell’avvento di Brando e della nostra famiglia. Racconta le varie fasi di questo accadere. All’inizio ero pieno di rabbia avevo un altro approccio nel raccontare di Brando e della sua malattia, nel finale cerco di intravedere quel lumicino che potrebbe essere la speranza racchiusa nell’ospedale di Rotterdam. È una piccola luce unita al progetto di ricerca di Telethon.

Il libro come sta andando?

Molto bene. Ho vari inviti televisivi per parlare del libro e della dimensione esistenziale di Brando.

Nel libro scrivi di essere egoista. Lo sei davvero oppure è un meccanismo di difesa?

Non sono un egoista. Egoista era la parte iniziale di tutto questo accadere, era la fase in cui ero disperato. Hai detto bene, era una sorta di protezione, ero arrabbiato con il mondo. La rabbia c’è ancora ma sono addolcito rispetto alla fase iniziale.

Nel finale c’è un sogno?

Alla fine del libro parlo di un sogno ricorrente: vedere Brando in piedi, che parla, che interagisce con noi.

Quanto la famiglia è importante?

È la colonna portante. Non vai da nessuna parte se non hai il sostegno della tua famiglia, dei genitori, degli amici che sono famiglia.

Se Brando esiste ha un significato?

Si! Abbiamo fatto tante cose da quel giorno, lui è il centro di tutto. Però, per Brando, è una grande ingiustizia. La vita è bella: è un peccato.

Cosa stai facendo in questo periodo?

Un programma sulla disabilità che ha avuto tanto successo e dovrebbe continuare. Questa è una di quelle cose che sono uscite dopo la nascita di Brando.

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