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L'intervista / Giotto / Via Antonio Gramsci

Menchino e quella "rovesciata dei sogni" raccontata a chi, di calcio, non ne sa nulla

Il 9 giugno 1985 al Comunale si disputava la penultima giornata del campionato di serie B. Gli amaranto contro il Campobasso vinsero 1-0. A decidere la partita Menchino Neri su rovesciata, la rovesciata più bella del mondo

Bella. Sì, non ci sono altri aggettivi. La rovesciata che Domenico “Menchino” Neri segnò contro il Campobasso il 9 giugno del 1985 è un capolavoro assoluto compiuto in meno di tre secondi.

Mangoni sugli sviluppi di un calcio d’angolo crossa in direzione di Neri. Un battito di ciglia. Menchino stacca i piedi dal campo, si alza in aria. Una cannonata. Lo stadio esplode. Tutti in piedi sugli spalti. Un altro istante ancora. Menchino corre sotto la curva col sorriso più grande del mondo lanciando baci in aria. Ride beato, consapevole di aver appena compiuto l’impresa del secolo. “Il portiere avversario - racconta - venne a stringermi la mano dopo quel gol. È stato un gran momento. Lo ricordo benissimo. Come ricordo benissimo quando giocai contro Diego Armando Maradona. Troppo bravo, non gli si stava dietro. Era un piacere vederlo”.

Giocare contro il "pibe de oro", la serie B e quel momento unico dove l’uomo smette di essere semplice calciatore e diventa una semi-divinità. Insomma Menchino, come si racconta tutto questo a una (come me) che il calcio proprio non lo capisce?  “La rovesciata bè…Allora, tutto è durato un minuto, un minuto e mezzo al massimo. Era una partita importante per noi e siamo scesi in campo con una gran paura”. Che significa andare in campo con la paura? “Che ti nascondi, hai così tanto timore di sbagliare che non giochi neppure. Non tocchi palla”. E voi vi sentivate così? “Sì perché quella era una partita importante. Perderla ci avrebbe fatto dire addio alla serie B. Al mattino eravamo ancora in ritiro a Cortona e ricordo benissimo la sensazione di mattone allo stomaco che avevamo tutti. Facemmo colazione, ci preparammo e tornammo ad Arezzo”. E una volta lì? “Niente, quella sensazione non se ne andava. Il caldo, l’ansia, il terrore di non farcela. Non giocammo al massimo delle nostre potenzialità. Poi, poco prima della rovesciata, ci diedero rigore. Non lo voleva battere nessuno. Il rigorista era Sandro Tovalieri. Ci guardò e disse che non se la sentiva. Avevamo tutti il terrore addosso. Il mister mi chiamò e mi disse “Menchino vai, tocca a te”. Io non volevo. Non mi rifiutai, ma ero tesissimo. Tiro e la palla non va in rete. Niente, ero fuori di me dalla rabbia e dalla frustrazione. Non volevo passare alla storia come quello che aveva fatto retrocedere l’Arezzo per aver sbagliato un tiro”. E dopo? “Dopo tutto è cambiato. Non so come sia andata di preciso, non me lo spiego. Forse qualcuno mi ha guardato da lassù, forse le preghiere di don Alvaro hanno fatto effetto, forse ho lasciato a terra la paura e ho spiccato il volo. Gol. Che spettacolo. Ero felicissimo”.

Io una roba così l’ho vista solo nei film. Lo sai che se ci avessi provato 1.000 volte non ti sarebbe mai venuta? “Sì, lo so. Però non è andata come dici te quindi fa piacere raccontarlo. Poi se lo chiedi a Andrea (Mangoni ndr) ti dice che il merito di quel gol è suo e del cross che fece”. Sì, bè quel cross era da dieci e lode. “Con Andrea avevamo un rapporto perfetto. Lui per me era, ed è ancora oggi, un fratello. C’era un sintonia pazzesca. E quando vuole stuzzicarmi mi dice che quella rovesciata è venuta così per merito suo e del suo passaggio”. La rovesciata dei sogni di Menchino, bella come nessuna mai. “Non mi nascondo, fa piacere parlarne e ricordare quel giorno. Come fa piacere che in tanti si ricordino di me come calciatore. Fin da piccolo sognavo di vestire la maglia amaranto della mia città. Ero alto così quando guardavo giocare l'Arezzo e dicevo che un giorno in campo ci sarei stato io. Allora non c’erano le scuole calcio e a giocare si imparava per strada”. E te come sei finito a fare il professionista? “Mi vide un osservatore coi miei amici al Gattolino. Prima per reclutare nuovi atleti la gente andava per strada, girava i quartieri. Io ero il più bravo di tutti e, infatti, mi notarono. Da lì ho cominciato. Il calcio mi ha portato in giro per l’Italia ma ho concluso la mia carriera vestendo i colori della mia Arezzo. Io sono matto per l’Arezzo, per me è un amore grandissimo”. Lo sai che io sono per metà 'valdarnotta' e quindi simpatizzo per il Montevarchi? “Il Montearchi, come dicono in Valdarno, c’ho giocato e c’ho anche vinto”.

Da quella domenica sono trascorsi 37 anni. Menchino oggi ha appeso le scarpette al chiodo e si dedica alla sua famiglia e alla cura del suo negozio. “Ho smesso di fare la vita da sportivo. Tutte le mattine però faccio un’ora e mezza di corsa. Oggi il calcio lo guardo dalla tribuna dello stadio e in tv”. Ma ti piacerebbe giocare di nuovo? Fare una partitella… “Certo, ogni volta che vedo un pallone io gli corro dietro. Però via, meglio stare fermi”.

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