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Martedì, 16 Aprile 2024
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La rivista aretina del 1930: "Vietare l'ingresso a scuola e in ufficio alle ridicole femminucce truccate"

Un articolo conservato nella Biblioteca Città di Arezzo descrive bene il clima maschilista e di avversione all'emancipazione della donna nel periodo fascista. Addirittura si spingevano i Balilla a fischiare alle ragazze che osavano truccarsi, definite "mostre di pittura"

La Biblioteca Città di Arezzo conserva un’interessante emeroteca con riviste, periodici e giornali pubblicati in passato nel territorio aretino, grazie alla quale si possono riscoprire tante pagine dimenticate del passato.

È proprio nel corso di ricerche legate a opere d’arte realizzate negli anni Trenta del secolo scorso che è spuntato fuori un articolo pubblicato nella prima pagina di “Giovinezza. Ventunista di battaglia”, rivista settimanale e organo di stampa della Federazione provinciale fascista aretina, risalente al 25 gennaio 1930.

Il titolo “Mostre di pittura” lasciava infatti immaginare un pezzo dedicato alle esposizioni d’arte ad Arezzo in quel periodo, ma il contenuto si è rivelato invece di tutt’altra natura. Il titolista aveva solo giocato con le parole, intendendo per “mostre” le femmine dei mostri e per “pittura” il trucco femminile.

Nel testo, dai toni fortemente maschilisti, si suggeriva ai giovani “balilla” di fischiare le ragazze truccate, definite “femminucce policrome” e “tavolozze ambulanti”, per metterle a disagio.  

Addirittura si proponeva di vietare loro di entrare in chiesa, a scuola e persino negli uffici pubblici, oppure ai genitori di proibire il cinema, dove i film con le dive americane potevano traviare le fanciulle paragonate a “scimmiette” capaci solo di ripetere passivamente i modelli propinati. Si faceva riferimento, ad esempio, all’attrice Madge Bellamy, molto in voga nel periodo.

Dalla lettura dell’articolo emergono il rifiuto dell’emancipazione femminile e il ruolo subalterno che il regime voleva imporre alla donna sia all’interno della famiglia, sia nella società. La sua funzione doveva essere quella di fare figli e crescerli secondo i dettami indicati per “fare i ragazzi d’Italia”. Le sue responsabilità non dovevano andare oltre le faccende domestiche, la cura della famiglia e l’educazione morale, politica e religiosa della prole.

A leggerlo con gli occhi odierni si capisce, per fortuna, che rispetto a una novantina d’anni fa molto è cambiato, ma altri aspetti di quel retaggio respirano sottotraccia. C’è quindi ancora tanto da lavorare da un punto di vista culturale ed educativo, a partire dalla famiglia e dalla scuola, prima di arrivare a una vera uguaglianza di genere.

Marco Botti

Di seguito la trascrizione completa dell’articolo.

“Mostre di pittura”

Avevamo da tempo una voglia matta di dir corna delle donne pitturate – col maquillage, come dice la «crema», – e Roma Fascista, validamente affiancata da La Tribuna, ha rotto ogni indugio, iniziando una simpatica campagna contro quello stupido vezzo della pittura facciale, che se a prima vista può apparire come un problema di moda femminile, a nostro giudizio è invece l’indice di una mentalità che in Regime Fascista non dovrebbe in alcun modo sopravvivere.

La faccenda delle donne dipinte, sia detto fra noi, intimamente non piace agli uomini: nemmeno a quelli che assumono atteggiamenti spregiudicati da vecchi viveurs; nemmeno a quelli che consigliano la moglie a infarinarsi e a verniciarsi perché così camuffata può apparire più piacente e giovare in miglior modo agli interessi della casa.

Non piace agli uomini; e sono questi in ultima analisi i soli responsabili del male che si lamenta. Scopo definitivo della donna è infatti quello di piacere all’uomo: quindi ella plasma e trasforma se stessa a seconda che il gusto mascolino si indirizzi per una strada piuttosto che per un’altra.

C’è contrasto fra queste due affermazioni? No; perché gli uomini, se detestano intimamente il bistro ed il minio, ne fanno l’elogio parlando con le loro donne, per tema di passare da provinciali, da gente all’antica, e per le stesse ragioni complimentano le signore restaurate sapientemente dai colori, affermando di trovarle fatali, trascendentali, divine.

Roma Fascista e La Tribuna simpaticamente propongono: perché non dare incarico ai nostri Balilla di fischiare allegramente per via queste tavolozze ambulanti e i mariti che consentono e qualche volta consigliano certe forme di decorazione facciale?

Siamo pienamente d’accordo; ma perché, per esempio, non vietare anche l’ingresso nelle chiese, nelle scuole, negli uffici statali e fascisti a queste ridicole femminucce policrome?

Perché i genitori seri ed onesti non vietano tassativamente alle giovinette di frequentare le sale cinematografiche, nelle quali i films di marca americana sono altrettanti insegnamenti di civetteria? Dove tutto quello che si mostra contrasta e stride col nostro temperamento e con la nostra sensibilità: dalle inutili parate belliche, ai giovanotti stampati in serie con le brache troppo ampie ed i baffetti ad accento circonflesso?

Il male viene infatti su ora dalla radice. La donna fanciulla, sotto certi aspetti, può considerarsi una scimmietta; sia pur graziosa, tenera, gentile, si tinge le prime volte soltanto perché l’amica o la rivale si tinge, perché Madge Bellamy si tinge, perché Lil Dagover si tinge, perché Carmen Boni si tinge. Poi, col tempo, che distrugge molte bellezze e sfiorisce tutte le giovinezze, sarà tutt’altra cosa. La donna si tingerà allora per necessità stessa di vita: sarà il restauro paziente e sapiente, qualche volta doloroso, di un corpo finito, sciupato dagli anni e dalle amarezze di cui è piena ogni esistenza. L’infingimento assumerà allora il tono della pietosa menzogna che si racconta per gli occhi del mondo e diventerà, da cosa stupida degna di esser combattuta, cosa tragica e ridicola insieme, degna soltanto d’esser compianta.

Una volta una donna dipinta che capitasse in un paese o in una città di provincia a stordire gli uomini pacifici ed ingenui dei nostri centri rurali con il penetrante odore dei suoi profumi di marca, era senz’altro attribuita al ruolo delle donne perdute: di quelle cioè che si fan trovare con eccessiva facilità.

Oggi sarebbe difficile se non impossibile una qualunque differenzazione: chè anche le donne di strapaese fanno a gara nel tingersi e nel profumarsi, nel fumar sigarette e nel parlare spregiudicato, nell’assumere, insomma, tutte quelle prerogative che un tempo erano riservate, e senza invidia, alle chanteuses ed alle mondane.

A noi sembra che le donne strane e bislacche dai fianchi stretti e dal seno assente, con le labbra impiastricciate tutta una gamma di rosso e gli occhi trasformati da un mirabile gioco di tinture e di preparati scientifici, non ci sembran quelle che il fascismo vuole per allevare ed educare i ragazzi d’Italia; ma soprattutto per fare i ragazzi d’Italia.

Noi abbiamo bisogno di donne sagge alla maniera romantica: dedite solo alla casa, alle faccende domestiche, alle cure della famiglia, all’educazione morale, politica e religiosa della prole. E siamo stufi, stufi, arcistufi delle ridicole uniformi bambole con la bocca stampata a cuore di pretta marca olliwodiana, capaci soltanto di dire sciocchezze e rancidi motti di spirito nei salotti mondani, di ballare charleston e di tenere in gran pregio quella assurda stupidissima cosa ch’è il flirt: pianta anglosassone, allignata rachiticamente e per forza nei giardini d’Italia.

(Pazzagli)

(Estratto dal n. 4 del 25 gennaio 1930 di “Giovinezza. Ventunista di battaglia”, rivista settimanale e organo della Federazione provinciale fascista aretina)

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