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Morto nella Rsa, la figlia: "Era la casa di mio padre. Chi era in prima linea, oggi è il capro espiatorio"

Il padre è morto di Covid 3 settimane fa nella Rsa di Montevarchi. La figlia scrive oggi a Koinè

"Quella era la casa di mio padreSi sentiva amatoChi ieri era in prima linea, oggi è il capro espiatorio". Le parole sono quelle che Susanna Gargani ha scritto nella lettera inviata a Koinè. Suo padre Aurelio era tra gli ospiti della Rsa di Montevarchi. La struttura finita nell'occhio del ciclone per le tanti morti dovute al Coronavirus. Susanna nella sua lettera offre il proprio punto di vista, la propria esperienza.

"Io e mio padre consideravamo casa questa Rsa - scrive Susanna - Non era una persona facile. Maresciallo maggiore dei carabinieri, aveva un caratterino non semplice, non dormiva ed era nervoso. Ma tra il suo medico di base, le infermiere e le operatrici, dopo i primi mesi sono riusciti a calmarlo e renderlo sereno. Senza, come si dice tra noi, alloppiarlo. Era invece sveglio, presente e tranquillo".

Aurelio Gargani, classe 1931, era entrato nell'Arma al momento di prestare il servizio militare e ci è rimasto fino alla pensione nel 1985.

"Mio padre aveva solo la quinta elementare ma una grande voglia di studiare  e imparare. Il suo primo incarico fu a Nuoro. Ricordo che ci raccontava anni difficili in luoghi ancora più difficili: in caso di omicidio, lui piantonava il cadavere mentre il collega tornava in caserma a dare l'allarme".

Da Nuoro a Ravenna fino all'incontro con la donna della sua vita. Un uomo di carattere. Poi la pensione, l'invecchiamento, le malattie e infine le Rsa. Era arrivato a Montevarchi da un'altra struttura.

"Mio padre era in demenza senile, aveva un femore fratturato e dopo 40 giorni ancora non stava in piedi. Grazie ai fisioterapisti in tre mesi è riuscito a ricamminare addirittura senza stampelle, grazie alla competenza, umanità, la gentilezza con cui si approcciavano per far fare gli esercizi. Non tutti i pazienti sono collaborativi e mio padre era uno di quelli che, se s'impuntava, gli esercizi non li faceva proprio".

Ed è qui che la figlia scrivendoa Koinè si mette dalla parte degli operatori ed offre una riflessione sulle accuse che in queste settimane sono piovute.

"Per me sono stati fantastici. Io gli posso soltanto fare i complimenti per tutto; incominciando dalla segretaria Martina, che appena arrivati ti accoglieva con professionalità, e un sorriso gentile che ti faceva sentire ben accolta, sempre pronta a spiegarti qualsiasi dubbio una potesse avere...le suore, le infermiere, le cuoche, le oss, le ragazze della lavanderia e delle pulizie che tengono la struttura sempre pulita ed in ordine".

Per Susanna l'ambiente della Rsa e l'esperienza con Koinè sono ben lontani da quelli che vengono raccontati oggi. "Nel 2016 ho avuto un ictus. Avevo 45 anni e mezzo ed ho rischiato molto. Koinè mi è stata vicina, in molti modi". Come è tata vicina a suo padre fino a quando nella "casa" è arrivato il coronavirus.

"Quando è morto mio padre, erano 40 giorni che non lo vedevo e lo sentivo solo per  telefono. L'ho rivisto il 15 aprile, in una bara chiusa al cimitero. E' stato straziante ma non posso dare la colpa alla struttura. So che ha fatto tutto quanto era in suo potere per limitare i contagi. Per questo, dopo quasi tre settimane dalla morte di mio padre, mi rammarico di vedere l'accanimento contro la cooperativa. I nostri vecchietti hanno bisogno di cura e vi assicuro che lì ce l'avevano. E'  facile dare la colpa, trovare un capo espiatorio a chi è in prima linea, a chi fa un lavoro egregiamente. E lavarsene le mani quando incominciano i problemi".

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