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Quando il vescovo Mignone si spese per un ebreo in pericolo nell’Italia occupata dai nazisti

Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Enzo Gradassi, scrittore e appassionato conoscitore della storia contemporanea locale

di Enzo Gradassi

Gyorgy Jonas, di stirpe ebraica, era nato a Budapest il 9 maggio 1904, unico figlio di Armin e Gizella Jonas (che erano cugini di secondo grado). Perse presto il padre, che morì di tubercolosi nel 1918 e visse con la madre ed i nonni paterni.

Studiò nella sua città e dopo la licenza liceale si iscrisse alla facoltà di lettere.

Si era negli anni successivi alla sconfitta dell’effimera Repubblica Sovietica ungherese di Béla Kun, che aveva lasciato anche strascichi di profondi e violenti sentimenti antisemiti: gli studenti ebrei erano spesso oggetto di brutali soprusi da parte degli studenti “ariani”, che li accusavano di aver sostenuto la repubblica dei soviet e, ancor più, di averla provocata al pari dei comunisti. 

Scampato ad una di queste aggressioni, in un primo momento Gyorgy si rifugiò a Vienna, poi venne in Italia, dove riuscì abilmente ad avvalersi delle agevolazioni riservate agli studenti stranieri: si iscrisse all’università di Padova e conseguì la laurea in medicina.

Nel 1934 si sposò con Lina Costa, figlia della sua padrona di casa, dalla quale nel 1935 ebbe un figlio e, poco dopo, ottenne la sua prima condotta medica ad Altare, in provincia di Savona da dove, in seguito, si trasferì a Genova ed aprì uno studio dentistico. 

Nel 1938, con la promulgazione delle leggi razziali, Jonas pensando di poter aggirare le restrizioni alle quali gli ebrei si trovarono a far fronte, si convertì alla religione cattolica, ma la scelta si rivelò inutile quando venne emanato il Regio Decreto-Legge 7 settembre 1938, n. 1381, una atto che stabiliva chi doveva essere considerato ebreo, che vietava la permanenza degli ebrei stranieri sul territorio italiano e coloniale e ne decretava l'espulsione. 

Gyorgy, che si era frattanto separato dalla moglie ed aveva avviato le azioni necessarie per il divorzio, venne raggiunto a Genova dalla madre Gizella, con la quale iniziò le pratiche per emigrare in Brasile (a Rio de Janeiro, dove la madre aveva dei parenti).

Poco prima di partire, proprio nel suo studio dentistico, incontrò invece una ragazza, Mercedes Pavera e fu il classico colpo di fulmine: lei lasciò il suo fidanzato e lui, a proprio rischio, rinunciò all’espatrio.

Col procedere della politica razziale del fascismo tutto si complicò e vi fu una stretta quando il capo della polizia Bocchini inviò ai prefetti del Regno, la famigerata circolare 443 con la quale gli ebrei stranieri venivano assimilati agli appartenenti a stati nemici e dunque “elementi indesiderabili”.

Il 22 febbraio 1941 Jonas venne fermato perché, nonostante i divieti delle leggi razziali, non solo non era espatriato, ma aveva proseguito ad esercitare la professione di dentista. 

Con questa accusa venne internato a Villa La Selva, nei pressi di Ponte a Ema, comune di Bagno a Ripoli. 

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Villa La Selva a Bagno a Ripoli

Si trattava di un complesso di proprietà di Silvio Ottolenghi, riparato in Palestina dopo la promulgazione delle leggi razziali, dato in amministrazione a Margherita Soavi e che svolgeva una funzione simile al campo di concentramento di Villa Oliveto di Civitella in Val di Chiana, per la raccolta e lo smistamento degli stranieri internati.

La villa disponeva di circa quaranta vani distribuiti su tre piani, con un potenziale di 225 posti e locali destinati ad uffici, infermeria, mensa e spaccio. La mensa era gestita da Alfredo Forni e dal suo aiutante Oliviero Pini (presto soprannominati “il boia e il suo assistente”).

Jonas vi entrò con la propria valigia (preventivamente perquisita e dalla quale era stato sequestrato un assegno di 372 dollari); gli vennero assegnati una coperta, due lenzuola, una federa, una bottiglia e un bicchiere dei quali si impegnò ad aver cura, firmando un atto che gli imponeva anche di non oltrepassare i confini del “campo” e di non parlare con estranei. 

Nella sua stanza, la n. 12, c’erano già due internati: Joe Zitzler, 41 anni, ex ufficiale nella Grande guerra diventato austriaco dopo il disfacimento dell’impero austro-ungarico. Questi aveva sposato una francese e undici mesi prima, a Ventimiglia, un funzionario di frontiera tedesco lo aveva accusato di spionaggio a favore della Francia. L’inchiesta a suo carico, con lui in regime di carcere duro, era proseguita per undici mesi, ma non aveva raccolto prove valide e pertanto il Tribunale per la difesa dello stato ne aveva decretato l’internamento; l’altro era Roul Everson, un norvegese di 31 anni, capitano marittimo. Era accusato di aver importato illegalmente petrolio in Italia. Era stato recluso per tre mesi sulla sua nave a Napoli e per tre giorni in carcere. Era stato internato perché aveva rifiutato di rientrare in Norvegia, ormai sotto l’influenza tedesca. 

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Jonas al tempo del suo internamento a Villa La Selva

Fra gli altri internati c’era un apolide russo, Gleb Balano, sulla quarantina, ex ufficiale della Russia imperiale. Catturato e destinato ad un campo di concentramento francese era evaso e fuggito a Firenze. Fascista della prima ora, era stato perfino decorato con la medaglia d’oro della marcia su Roma; il suo internamento era motivato dalla sua “condotta immorale” perché dopo aver fatto vari mestieri si era dato allo sfruttamento della prostituzione aprendo due case di tolleranza. 

Altri internati erano di nazionalità greca: i fratelli Beppe e Saul Levi, uno studente di medicina ed un ragioniere, 22 e 21 anni; Bibi ed Elio Levi, anche loro fratelli, di 27 e 34 anni e il loro zio Alessandro. Benestanti, proprietari di scuderie a San Siro. Greci che non avevano mai visto la Grecia e non conoscevano una parola di greco. 

All’interno del campo Jonas trovò modo di prestarsi a servizi in infermeria per curare gli internati e venne perfino autorizzato ad aprire un piccolo studio dentistico. La mensa era insufficiente e costituita per lo più da patate e determinava frequenti proteste. Il campo non aveva bagni: per fare una doccia si doveva andare, dietro prenotazione e pagando 4 lire, a casa del Forni.

La madre di Jonas si era attivata per far ripartire la pratica di emigrazione in Brasile, ma aveva incontrato ostacoli e difficoltà tanto da costringerla a rivolgere una supplica al Vaticano per ottenere sostegno e ad un certo punto la sua richiesta di attenzione era finita in mano di Monsignor Montini, il futuro papa Paolo VI. 

Il 5 aprile Mercedes Pavera (la sua compagna che Jona chiamava Dinka) si presentò a Villa La Selva e chiese invano di incontrarlo: la direzione non lo consentì e poiché la giovane non aveva documenti, venne trattenuta in questura a Firenze per alcuni giorni.

In quel periodo Jonas, che accusava problemi di salute, fece richiesta per essere visitato dal prof. Ferruccio Schupfer, medico patologo dell’aristocrazia fiorentina; la sua richiesta venne accolta e l’8 maggio fu condotto a Firenze. La diagnosi del luminare confermava ciò che Jonas aveva già intuito: enfisema, asma e pseudo-angina. La terapia: riposo, tranquillità e buona alimentazione. Non proprio la vita dell’internamento. L’onorario della visita: 50 lire.

Il 13 maggio, dopo oltre 3 mesi di internamento, Dinka ottenne un permesso per andare a trovarlo per sei giorni.

A giugno Jonas fu informato che anche sua madre Gizella era stata internata: dal 26 maggio era relegata a Venarotta un piccolo comune in provincia di Ascoli Piceno in regime di semi-libertà.

Il 29 settembre del 1941, su sua richiesta e con foglio di via, Jonas venne trasferito a ricongiungersi con la madre.

Considerati non pericolosi, da qui, nel novembre, Giorgio Jonas e la madre vennero traferiti a Pelago, in provincia di Firenze, al confine con quella di Arezzo dove nel gennaio 1942 furono raggiunti da Dinka

Vissero dapprima in casa di Natalino Tozzi e Settima Consumi, due generosi abitanti di Pelago, poi misero su casa a Diacceto, sempre in comune di Pelago, vivendo in relativa tranquillità fino al settembre 1943, quando arrivarono i tedeschi.

Gizella venne nascosta ancora, anche nei momenti più pericolosi, dalla famiglia Tozzi, mentre Giorgio e Mercedes scapparono nell’aretino.

Non è molto chiaro dove si siano rifugiati: forse da qualche parte in comune di Bucine, visto che, in seguito, Jonas vi tornò ancora, dato che nel 1944 figurava come presidente (indipendente) del CLN di quel comune. 

Certo è che di lui si occuparono le gerarchie ecclesiastiche aretine ed il vescovo Mignone in prima persona.

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Monsignor Emanuele Mignone vescovo di Arezzo

Quello che sappiamo è che il Vescovo di Arezzo, gli fece avere falsi documenti di identità e lo assunse come perito agrario della diocesi sotto il nome di Giorgio Parodi. Del resto, come racconta Curina nel suo Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, presso il comune di Arezzo, grazie a Dino Piccoletti e ad Alfredo Sacchini, funzionava un vero e proprio ufficio per il rilascio - a quanti ne avessero bisogno - di carte di identità false. 

Così come è certo che nell’aprile 1944 Monsignor Mignone scrisse una lettera a don Lorenzo Giusti, parroco di Antria nella quale, sebbene esprimendosi in un cauto codice, lo invitava ad accogliere il dottor Parodi:

“Caro Don Lorenzo, prendo viva parte alle condizioni della tua salute da qualche tempo un po’ scossa, e mi son deciso, poiché la occasione si presenta favorevole, di darti un aiuto del quale son sicuro che ti troverai contento. Parlo del dott. Giorgio Parodi che l'amico mio Mons. Piana caldamente mi raccomanda per le sue qualità sia morali che tecniche.

Egli è uno sfollato dalla crudelmente mutilata Genova e pensai di fare un atto di carità a lui e di vantaggio al Seminario accondiscendendo a un antico tuo desiderio di avere al tuo fianco una persona tecnica agricola. Mi son pertanto deciso di nominarlo ufficialmente”.

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La lettera del vescovo a don Lorenzo Giusti, parroco di Antria

Il riferimento alla “mutilata Genova” e a Monsignor Piana, allora parroco della monumentale chiesa genovese di Santa Zita, fa pensare che proprio da Genova fossero partita i buoni uffici per proteggere il medico ebreo.

E così Giorgio Jonas, alias Giorgio Parodi, e Mercedes trovarono rifugio ad Antria, nello stesso periodo nel quale nella frazione aretina era sfollata anche la famiglia dell’avvocato aretino Massimo Luciani che “ospitava” il giovane tenente belga Jean Justin Mauritz Meuret, originario di Jemappes, che dopo essere evaso da Laterina dopo l’8 settembre era stato a lungo nascosto nei boschi di Gaenne, sopra Viciomaggio. Quello stesso giovane che avrebbe perso la vita nel tentativo di liberare i fratelli Tani e Aroldo Rossi dal carcere di Arezzo. 
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Antria, 1944, Giorgio Jonas e la sua compagna, Mercedes Pavera, con don Carlo Tanganelli, don Lorenzo Giusti, don Ettore Chiodini e don Pietro Vanni.

Benché sconosciuto di fatto a Curina e compatibilmente con il suo stato di rifugiato, Jonas svolse un ruolo attivo, di collaborazione col CLN aretino anche perché per gli spostamenti del suo “ufficio” era munito di un’automobile di proprietà della curia e di un 7 pass tedesco-2pass tedesco autentico. La sua attività venne attestata da un documento della Curia vescovile firmato dal Vicario Can. Carlo Tanganelli e controfirmato, per il CLN da Umberto Mugnai e Alfonso Giarelli e, per la Brigata Garibaldina “Pio Borri”, da Siro Rosseti: vi si afferma che Jonas, sotto il nome di Parodi Giorgio si è prodigato “per recare informazioni d’indole militare della zona occupata dai tedeschi al Comitato di Liberazione Nazionale e nella lotta contro il fascismo”. 

Il suo ruolino di partigiano lo certifica come componente della compagnia Comando della XXIII brigata “Pio Borri” a far data dal 1 ottobre 1943 fino al 21 agosto 1944.

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Attestazione della curia vescovile sull’attività svolta da Jonas

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