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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cultura

Hip Hop 4 Peace - II° giorno: "... quando brindare è una necessità"

di Marco Picinotti Trovare qualche birra a Tripoli non è una missione semplicissima. Non come in Italia. Ma ci sono dei momenti in cui diventa fondamentale averne, perché brindare è una necessità. Inizia dalla fine questo diario del secondo...

di Marco Picinotti


Trovare qualche birra a Tripoli non è una missione semplicissima. Non come in Italia. Ma ci sono dei momenti in cui diventa fondamentale averne, perché brindare è una necessità. Inizia dalla fine questo diario del secondo giorno. Inizia dal momento in cui rileggiamo insieme i versi che hanno scritto e cantato i bambini del centro con cui stiamo lavorando a Tripoli, con una bella birra fredda in mano, stanata dopo diversi giri a vuoto e alla fine trovata nel quartiere cristiano: “Quando il sole va a dormire/E nelle strade sento la voce delle macchine/So che mi sento a casa mia/E che amo la mia famiglia di Bab at Tebaneh”. Una birra per poter brindare a questa gente.


Bab at Tebaneh è un quartiere inerpicato su una collina, dove le strade principali, non sono solo strade, ma confini presidiati dai militari, che a seconda di chi tu sia, o di chi tu rappresenti, puoi o meno varcare. Nella parte più bassa vivono i Sunniti, nella parte alta gli Alawiti. Dalle facciate dei palazzi non si capisce la differenza, sembra tutto uguale, tutto è trapassato da un’infinità di proiettili e gli appartamenti squarciati dalle esplosioni di questo grande conflitto, l’ennesimo di un’enorme guerra quotidiana. Da mesi c’è la tregua, ma è uno di quei posti dove la tensione rimane nell’aria, appiccicata all’ossigeno e agli scarichi delle innumerevoli macchine che passano senza sosta.








Nel bel mezzo di queste strade, incastonato come una perla (non può esserci un altro paragone. Niente retorica, niente esagerazioni, nessun tanto per dire), si apre il centro dell’Arci, dove stiamo lavorando. Basta affacciarsi da una delle numerose terrazze e proprio sotto, nascosti fra enormi plinti di cemento a proteggerli, sono parcheggiati una dozzina di tank dell’esercito libanese, pronti e in posizione per sedare le proteste che spesso si accendono lungo queste vie. Noi dentro casa a insegnare a scrivere e a fare rap ai bambini libanesi e siriani, divertiti dai rasta lunghissimi di Marcello, che diventano un motivo in più di gioia e di scoperta per questi bambini prontissimi ad ogni più piccola occasione, per essere ancora un po’ più felici del momento prima. Felci con Pol G a tenergli il tempo e con Militant A a far funzionare le loro strofe, scritte in arabo, ritradotte in inglese e francese, cambiate, fatte funzionare e ritradotte in arabo. Un casino, un gran casino di lingue, di storie, di sogni. Sembra uno scherzo. Sembra un scena della commedia dell’arte: confusione dentro, disciplina militare fuori. Ma tant’è. Anzi è grazie a tutto questo che la musica, queste semplici parole, ma difficili, ambivalenti, come tante cose di queste parti, prendono senso e forza sulle bocche e sugli occhi di bambini di 8-10 anni, già uomini e donne, malgrado loro.


“Grazie che siete venuti, qui non viene mai nessuno. Stiamo cercando di dare una nuovo foto di questi posti crivellati di colpi. Noi non amiamo la guerra, noi siamo per la pace”, ce lo dice un signore anziano a passeggio per le strade del quartiere. Uno di quei signori mediorientali consumati e orgogliosi, stanchi, ma col sorriso stampato sulla bocca. Sempre e comunque, nonostante tutto. Un uomo che ha visto tutto, ma che riesce a rimanere sorpreso di ogni piccola cosa, ogni piccolo gesto: non è semplice che qualche straniero giri per quelle strade. E lo faccia per portarci la musica. Non stiamo parlando della grande e splendente Beirut del resto, stiamo parlando di un quartiere a soli 32 km dal confine siriano, che racchiude in pochissimi chilometri quadrati, tutti i conflitti di un paese. La luce a volte salta e salta pure il piccolo sound system montato nell’atrio del centro. Con lei saltano le strofe cantate e i bpm del ritmo. Tutto il quartiere si spegne. Silenzio. Poi, bastano pochi minuti e riparte tutto da dove ci si era fermati. I bambini sghignazzano, urlando “wellcome in Lebanon”.


Questa è la situazione qua, nel paese dei cedri: a volte, senza neanche capire il perché e il per come, salta la luce e finisce di suonare la musica, per poi ripartire da dove eravamo rimasti. E allora salute al Libano. Lunga vita a questa gente. Speriamo che siate orgogliosi di noi e di quello che abbiamo fatto insieme, almeno un centesimo di quanto lo siamo noi per voi e per quello che fate ogni giorno su queste strade. Per riaccenderne la luce. A domani, per il grande giorno della festa e del concerto dei bambini, per il giorno del rap fatto, proprio lì, dove è importante che risuoni. Il giorno della musica, all’ombra dei tank dell’Esercito Libanese.

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