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Riflessioni intorno alla mostra: Piero della Francesca. Indagine su un mito. Forlì

Vale la pena programmare una visita più che approfondita a questa mostra dal titolo “Piero della Francesca. Indagine su un mito”, ancora attiva all’interno dei Musei di San Domenico di Forlì. Una collezione di opere che ci aiutano a comprendere la...

Vale la pena programmare una visita più che approfondita a questa mostra dal titolo “Piero della Francesca. Indagine su un mito”, ancora attiva all’interno dei Musei di San Domenico di Forlì. Una collezione di opere che ci aiutano a comprendere la riscoperta di questo grande artista, caduto nell’oblio per alcuni secoli e poi rivalutato tra Otto e Novecento. Ed è proprio questo il filo conduttore della mostra, che ha come pretesto, quello di indagare la portata della sua opera, attraverso le indicazioni e lo studio di alcuni autorevoli critici della storia dell’arte moderna, fra i quali Bernard Berenson, Adolfo Venturi e in particolare Roberto Longhi. Da apripista alla mostra un’opera pregevole, la scultura marmorea del Busto di Battista Sforza realizzata intorno al 1472 – 1475 dallo scultore Francesco Laurana. Moglie di Federico da Montefeltro, il calco fu probabilmente desunto da un ritratto postumo della donna, morta il 6 luglio 1472. L’opera oltre ad indicare i rapporti stringenti che l’artista ebbe con i duchi di Urbino, ha la funzione di richiamare alla mente del visitatore il Doppio ritratto dei Duchi d’Urbino eseguito da Piero e conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze. Sempre ispirata a Battista Sforza è l’altra opera, il piccolo dipinto di Carlo Carrà, esposto poco più avanti: L’amante dell’ingegnere (1921) con il quale l’artista chiuse quell’intensa stagione metafisica insieme a Giorgio De Chirico.

Se la distanza cronologica delle due opere ci può apparire siderale, in realtà Carrà ha il compito di introdurre, tutta una serie di artisti del Novecento che si sono ispirati a Piero della Francesca. Dipinti del gruppo dei Macchiaioli tra cui Silvestro Lega, Odoardo Borrani e Telemaco Signorini, ma anche esponenti del neorealismo della Scuola Romana come Cagli e Capogrossi o dell’impressionista Edgard Degas, del simbolista Puvis de Chavannes, o del pioniere del movimento puntinista George Seurat con l’opera intitolata: Poseuse de profil (1887), per citarne solo alcuni. L’ultima sala chiude la carrellata dei contemporanei, una sala dedicata interamente a Balthus con Les Joueurs de cartes, 1966-1973 e alcune vedute rarefatte dell’americano Edward Hopper, che sono un’ulteriore conferma di come l’eredità del nostro conterraneo sia stata definitivamente consegnata alla piena e universale modernità.

Le opere di Piero della Francesca, se pur poche sono tra le più impegnative, se osservate attentamente e se cerchiamo opportunamente di stringere dei paralleli con il resto dei capolavori degli artisti consentanei al maestro. Al centro della seconda sala, debitamente allarmata e allestita con luci soffuse, regna sovrano e maestoso il Polittico della Madonna della Misericordia (1445 – 1462) arrivato da Borgo San Sepolcro. È complementare ad esso la tavola a tempera e resina del San Girolamo e un devoto (1440-1450 ca.), opera che ci porta a riflettere su come non siano più applicate le proporzioni gerarchiche tra personalità terrene e divinità, viste le dimensioni maggiori del donatore in ginocchio, incarnate nella figura di Girolamo Amadi, rispetto a quelle del santo. Inoltre l’opera, se pur deteriorata, conserva tutta la tonalità dei caramelli che si inseguono sul piano sfondato del paesaggio, fino ad investire il castello, forse rappresentazione della Rocca Malatestiana. Le altre opere della seconda sala sono: una Madonna col bambino (1432 -39), tempera su tavola, che si ammira fronte e retro e la Santa Apollonia, una tecnica mista su tavola a fondo oro, attribuito a Piero della Francesca, proveniente dalla National Gallery of Art di Washington. Seguono opere di Domenico Veneziano, designato nella pattuglia dei “pittori di luce” insieme a Beato Angelico, e Andrea del Castagno, dei quali Piero ha elaborato la lezione sulla luce del primo e sulla plasticità delle figure nel secondo. Una Pietà di Giovanni Bellini del XV secolo dall’impostazione fresca e quasi fotografica nel ritaglio dei volti degli angeli; seguono tavole di Ercole de Roberti, Bartolomeo della Gatta, Francesco del Cossa, Luca Signorelli, Melozzo da Forlì, Perugino ecc. per un totale di circa 250 pezzi, e con le quali si può attraversare con la fantasia, gran parte dell’Italia centro-settentrionale.

Se alcune delle opere capitali fin qui esposte ci fanno comprendere la rivoluzione prospettica che il XV secolo aveva sancito e che, secondo la definizione vasariana, si riassumeva in “Un modo optimo”, un “modo” congegnato essenzialmente sul disegno della pianta e del prospetto, che poteva esser frutto di una elaborazione delle ricerche fiorentine, guidate oltre che dagli stessi Leon Battista Alberti e Filippo Brunelleschi, da Paolo Uccello e da Filarete, Piero dimostra attraverso l’evolversi delle sue opere un profondo interesse per l’architettura e un crescente coinvolgimento nell’”Ars aedificatoria”, tanto che la natura pare essa stessa considerata una vera e propria architettura. A questo proposito vorrei in ultimo menzionare la sezione che mostra i preziosi codici, delle tarsie (cfr. allo studiolo urbinate di Federico da Montefeltro) realizzate da Lorenzo Canozi da Lendinara e dell’immagine tricefala della Trinità, proveniente dall’altare della Santissima Annunziata di Firenze, di Pagno di Lapo Portigiani, entrambe sintesi di quel “modo optimo” appena descritto che fu la realtà del Rinascimento.

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