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Cultura

La centralità della tradizione nelle opere di Rodolfo Meli

Da qualche settimana è stata inaugurata la mostra “Il guardiano del sonno” di Rodolfo Meli, curata da Carlo del Bravo e Grazia Badino, presso la Galleria Comunale di Arte Contemporanea di Arezzo che rimarrà aperta fino al 17 aprile. Una selezione...

Da qualche settimana è stata inaugurata la mostra “Il guardiano del sonno” di Rodolfo Meli, curata da Carlo del Bravo e Grazia Badino, presso la Galleria Comunale di Arte Contemporanea di Arezzo che rimarrà aperta fino al 17 aprile. Una selezione di opere tra le quali spicca la grande tela intitolata Il buon governo (2003), in collezione privata e di cui la scrivente, in occasione della pubblicazione del catalogo della raccolta, ne sta redigendo la scheda riassuntiva. Ma vediamo più da vicino i momenti caratterizzanti di questo artista.

Conclusi gli studi negli anni ’70 presso l’Istituto d’Arte di Firenze; il giovanissimo Meli intraprende la carriera pittorica, portando avanti quell’idea di classicismo, maturata dallo studio delle grandi opere, all’interno del contenitore artistico del XX secolo. Attingendo inizialmente dalla Pittura metafisica, lasciata da Carlo Carrà, Meli ha modo di concentrarsi a quel recupero desunto dall’antichità, oltre che nella ricerca e nell’elaborazione di una figura stilizzata ma concreta su di un piano prospettico. Un modello archeologico puro, che sulla scia del concetto che si ha della metafisica, va oltre l’apparenza effettiva della realtà e del tempo.

Punto di partenza espressivo è per Meli, quello di riproporre la centralità della tradizione e della storia, del classicismo e della fedeltà figurativa, del racconto e della celebrazione aulica. Un passaggio fondamentale che si alimenterà sul finire degli anni ’80 attraverso lo studio solerte di quella pattuglia di artisti gravitanti in Toscana a metà del XV secolo. I cosiddetti Pittori di luce, come molti storici li hanno solitamente apostrofati, che indagarono principalmente sulla resa luminosa dei colori, alla ricerca di ombre nitide e trasparenti, permeate su di uno spazio inondato di luce. Un’attenzione a questo tipo di problemi che si estrapola anche dagli scritti lasciati dall’architetto Leon Battisti Alberti intorno “all’amicizia dei colori” e sulla contemplazione del viraggio di taluni colori sulle cose. Una ricerca vincolata e che si compenetra sui paradigmi lasciati dall’architetto Filippo Brunelleschi, secondo cui le cose in pittura, hanno una collocazione definita, grazie alla resa della prospettiva “artificiale”. Meli mostra di assimilare la lezione del giovane Piero della Francesca quando quest’ultimo sperimentava questo tipo di risultati, non solo dalle soluzioni lasciate dal miniaturista francese Jean Fouquet, ma anche dal ciclo di affreschi, nella fiorentina chiesa di Sant’Egidio, assieme a Domenico Veneziano, Andrea del Castagno e Alesso Baldovinetti.

Nel corpus di opere all’interno della mostra di Rodolfo Meli intitolata Il Guardiano del Sonno, vi si rispecchia l’influenza lasciata dal grande maestro della prospettiva. Volti e corpi caratterizzati e composti da una luce diafana, che fanno pensare al metallo traslucido, inondano, attraverso la nitidezza delle ombre, l’atmosfera del paesaggio dal sapore evanescente. Uno scenario elegante, sorto in uno spazio immaginario, su cui sono ambientati i personaggi della storia, in linea con quel concetto illusionistico inaugurato da un altro pittore di luce come Beato Angelico - per cui è finto nel dipinto ciò che lo inquadrava -. Un allegoria della personalità artistica come la definisce Meli: Protagonisti ne sono il Contadino e l’Architetto, che si alternano nella guardia su due torri; un uomo e una donna, figure quasi compendiare della vicenda umana, ma qui rappresentative di due approcci complementari verso la Natura; il Contadino è quella parte dell’artista che desidera fondersi e quasi identificarsi con essa, l’Architetto rappresenta, invece, l’altra propensione, tutta esterna alla Natura, e intellettiva, astratta e geometrica. Quando si verifica il miracolo dell’espressione, è attraverso la fusione di tali atteggiamenti intrinsecamente opposti. La forma narrativa drammatizza il rapporto fra i due, facendone una storia d’amore. Interpretazione che ben corrisponde allo svolgimento del video, inserito nella proiezione del percorso espositivo e che a mio avviso, ci catapulta su tangenze espressive molto vicine a quello studio dell’arte classica rivisitata nel cortometraggio in chiave elettronica contemporanea. Un genere quello dell’interpretazione classica a cui Meli non è nuovo, da ricordare la personale allestita nel 2009, all’interno del Museo Archeologico di Firenze intitolata Eccellenze da Populonia con Timodemo e successivamente esibita nello stesso Museo Archeologico. Un percorso pittorico che si snoda a stretto contatto con gli oggetti rinvenuti nell’antica necropoli. Filo conduttore l’antica favola di Dafni e Cloe, che oltre ad essere trasposta in un contesto toscano, trova la giusta scenografia per un cortometraggio, nella visione del famoso carro in bronzo e nelle parti di un ricco corredo funebre, come le Idrie di Meidas. Incantato dalla cultura classica, espressione dell’equilibrio formale, Meli associa alla parte onirica ed inconscia il compito di spaziare con la fantasia, restituendoci attraverso le sue opere, in un’elaborazione personale, le antiche gesta di un popolo che per molti secoli fu protagonista del ricco bacino del Mediterraneo. Una mostra forse avara di pannelli esplicativi, che potessero far emergere ulteriormente le peculiarità dell’artista e all’osservatore nel dare le giuste chiavi interpretative.

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