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Giovedì, 28 Marzo 2024
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Redazione

Un'altra memoria - Era domenica mattina...

Era domenica mattina... Una schiena d’asino coperta di viti e di olivi, in mezzo alle colline a capo della val d’Ambra. Otto case e sessanta cristiani, galline e conigli, piccioni, capre e faraone; al centro un cipresso. Lo aveva piantato...

Era domenica mattina...

Una schiena d’asino coperta di viti e di olivi, in mezzo alle colline a capo della val d’Ambra. Otto case e sessanta cristiani, galline e conigli, piccioni, capre e faraone; al centro un cipresso. Lo aveva piantato Giulio accanto al seccatoio, quando era partito per la grande guerra. E nessuno lo avrebbe mai tolto da lì, dove ancora si staglia imponente, sentinella e testimone di vita e di morte, di vita dura e serena, e di molta morte.

Era una domenica d’estate del quarantadue, quando Helga e Giovanni giunsero a Gebbia da Firenze. Giovanni era già stato lì un paio di volte, per Helga era la prima, ma le sembrò il paradiso in terra.

Con il treno grande erano giunti ad Arezzo, poi con quello più piccolo alla Badia al Pino e con la corrierina fino a Civitella. Da lì, camminando per quattro chilometri e mezzo tra lecci e castagni, pini e cespugli di erica, erano entrati nella pace di Gebbia, un luogo dove la strada finisce e cominciano le mulattiere. Uno di quei villaggi conosciuti fino a dieci chilometri intorno. Non c’è e non c’era nemmeno la chiesa, a Gebbia, e per assistere alla messa della domenica bisognava andare fino alla Cornia. I due sposi forestieri, in piedi sull’orlo del pendio, si riempivano gli occhi del panorama della Val d’Ambra e dei monti del Chianti in lontanaza, verso nord. In pochi minuti impararono a riconoscere San Pancrazio, disteso sul dosso di lato, a dieci chilometri di strada per muli da lì. Dedicarono uno sguardo anche ai boschi vicini, verso Civitella, invisibile per via delle alte colline. Il ventoso silenzio era rotto dalle urla confuse dei bambini di Gebbia, che si inseguivano tra le pietre dei muri a secco, dietro un pollaio o sotto casa di Pietro. Gli anziani presenti osservavano tutto, protetti dalla penombra delle piccole finestre nere, dentro le quali si sentivano al sicuro, mentre i più giovani lavoravano nei campi terrazzati d’intorno. “Quelle quattro mura abbandonate sono quelle di cui ti ho parlato, Helga. Se vorremo sarà nostra già oggi; tu che ne dici?” “Beh, messa così e viste le condizioni dei muri, non sembra un’eventualità entusiasmante, Giovanni…” “Tu prova a pensare ad una vera casa, costruita al suo posto. Una casa di due piani, con cinque stanze sopra e i magazzini sotto, uno spazio per gli animali e per le attrezzature.

Da qui si vede tutto il panorama possibile, fino al Pratomagno, là in fondo… E i campi terrazzati qui sotto sarebbero nostri. Qui i nostri figli potrebbero vivere tranquilli, al riparo dalla guerra e dalle sue miserie…”

“Certo. Ma mentre costruiremo la casa, dove potremo abitare?”

“C’è una soluzione anche per questo, Helga. La famiglia Brandi ha tre stanze vuote in quella casa là in fondo, e ce le lascerebbe abitare per un po’…”

“Hai pensato proprio a tutto…”

“Ti piace, Helga? La facciamo questa pazzia?”

“Mi piace tantissimo, Giovanni, ma come faremo con il nostro lavoro? Come potrai continuare l’insegnamento agli Scolopi? E le conferenze? Come farò ad inviare le mie illustrazioni alle case editrici? E i bambini? Devono andare a scuola…”

“Simonetta ha solo due anni, e a lei penserai tu, insieme a tua madre. A Civitella c’è chi potrà insegnare la letteratura e il latino a Nia, mentre Ulle continuerà a frequentare la scuola a Firenze, come me… Io e lui continueremo ad abitare in città dal lunedì al venerdì; saremo qui ogni fine settimana…”

“E la danza? A Nia mancheranno la danza e il piano…”

“Per la danza non so ancora come poter fare, ma a Civitella c’è un pianoforte, in casa del macellaio, e qualche chilometro più in là abita una brava insegnante... Si tratterà di arrangiarsi e adattarsi, Helga, ma questo è un angolo di paradiso; non dimenticare che a Firenze siamo già al pane razionato…”

“Siamo due incoscienti a fare questa pazzia… Chi ci costruirà la casa nuova?”

“Allora sei d’accordo! Ci sono dei muratori alla Cornia, che non vedono l’ora di cominciare i lavori. I materiali li possiamo trovare a Monte San Savino, a neanche quindici chilometri da qui… Mi hanno spiegato tutto. Sarai tu il capomastro!”

“Mi auguro che tu stia scherzando, Giovanni. Non so nemmeno cosa significhi costruire una casa ed ho tre figli da crescere…”

“La nonna Erna sarà perfettamente in grado di occuparsi delle faccende e dei ragazzi quando non ci sarai, e il tuo senso pratico è proverbiale…”

Un silenzio prolungato, accompagnato da quello temporaneo dei bambini e dalla brezza tiepida da est, avvolse quella strana coppia, composta da un piccolo e rotondo scienziato/insegnante sardo, accompagnato dalla sua amata e più giovane metà, alta e svedese d’origine.

Un refolo di vento alzò leggermente la gonna a fiori di Helga, che si affrettò ad abbassarla di nuovo, pudica. Fu come se quel gesto minimo, insignificante, la spingesse a decidere in fretta, distogliendola da pensieri indefiniti.

Stava per dire la sua quando un refolo di vento stallatico raggiunse le sue narici cittadine. L’odore forte non interruppe la sua concentrazione e anzi, ne rafforzò la decisione.

“Va bene, Giovanni, ma è da matti. E in più ci stiamo prendendo la responsabilità di decidere il futuro di mia madre e dei nostri figli… Gente di città, come noi…”

“Sei grande, Helga! Sapevo che avresti detto di sì. Vedrai che non ce ne pentiremo. Siamo ancora sufficientemente giovani e forti per potercela fare…”

Helga aprì il suo sorriso nordico e biondo, contaminato dall’aria di Toscana.

“Io, sono giovane e forte; tu stai diventando un vecchietto senza capelli, caro mio… Ha, ha…”

Giovanni e Helga si abbracciarono innamorati, sotto gli occhi ritirati e socchiusi delle anziane e compiaciute comari nascoste. A Giovanni piaceva da matti abbracciare Helga in quel modo, anche perché il suo mento si accostava ogni volta alla scollatura di lei, e lì si trovava davvero a suo agio. Quell’abbraccio fu per tutti la conferma di una notizia che già era nell’aria. Anche i mocciosi dalle ginocchia nude e nere, infatti, si erano fermati curiosi a guardarli.

I signori Cau sarebbero venuti ad abitare a Gebbia.

Cominciava così l'avventura dei Cau a Gebbia, un'avventura che si sarebbe conclusa di lì a due anni, quando il 29 giugno del 1944 vennero caricati su un camion dai tedeschi e condotti a villa Carletti, nelle immediate vicinanze di Monte San Savino. Di loro non si seppe più nulla fino al 1950, quando vennero rinvenuti i loro corpi sotto un mucchio di scarti di lavorazione della fornace, ai piedi del paese. Furono riconosciuti dalla figlia più grande, per via delle fedi.

I loro corpi erano stati occultati perché il comando tedesco di Roma non aveva dato il permesso di sopprimere Helga, che godeva dell'immunità grazie al suo passaporto svedese.

Nia Cau, che aveva nove anni quando i suoi scomparvero sul camion dei nazisti a Gebbia, mi ha raccontato cinque anni fa la storia della sua famiglia con gli occhi malinconici di chi l'ha vissuta. Lei ha poi dato seguito alla sua passione per il ballo classico e girato l'Europa in lungo e in largo, ma non ha mai dimenticato quegli anni ritenuti ancora bellissimi e insieme così tragici. Cinque anni fa la Corte Internazionale dell'Aia ha negato qualsiasi risarcimento agli eredi delle vittime civili degli eccidi di Civitella, Cornia e San Pancrazio; lo ha fatto perché la Germania gode di un'immunità riconosciuta dal diritto internazionale per i reati commessi dal Terzo Reich. Gebbia non viene nemmeno citata, anche se le storie delle vittime dei tedeschi di quel borgo non furono meno tragiche delle altre.

Ma il risarcimento oggi non è così importante, perché ormai la storia è stata scritta, quando la giustizia italiana ha attribuito definitivamente le responsabilità ai militari e allo stato tedesco di allora.

Quello era il passaggio indispensabile perché ciò che era accaduto non potesse un giorno essere negato da alcuno.

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