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Giovedì, 28 Marzo 2024
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Redazione

Giorgio Vasari su Cimabue

Ad Arezzo, in San Domenico, c’è l‘unico crocifisso di Cimabue arrivato fino a noi nella sua forma originale. Si tratta di un’opera straordinaria che non moltissimi conoscono. Questo mi induce a riportare un estratto da “Le Vite...” di Giorgio...

Ad Arezzo, in San Domenico, c’è l‘unico crocifisso di Cimabue arrivato fino a noi nella sua forma originale. Si tratta di un’opera straordinaria che non moltissimi conoscono. Questo mi induce a riportare un estratto da “Le Vite...” di Giorgio Vasari nel quale si descrivono le caratteristiche di Cimabue e il suo legame con Giotto. Si tratta solo di una parte del capitolo che il grande architetto, pittore e storico dell'arte ha dedicato a Cimabue.

E’ proprio da Vasari che abbiamo appreso la maggior parte delle notizie che abbiamo sugli artisti di quell’epoca. Naturalmente il grande aretino scriveva nella lingua del suo tempo, che comunque si legge benissimo.

“…è da considerare che Cimabue cominciò a dar lume et aprire la via all’invenzione, aiutando l’arte con le parole per esprimere il suo concetto, il che certo fu cosa capricciosa e nuova. Ora, perché mediante queste opere s’aveva acquistato Cimabue, con molto utile, grandissimo nome, egli fu messo per architetto in compagnia d’Arnolfo Lapi, uomo allora nell’architettura eccellente, alla fabrica di S. Maria del Fiore in Fiorenza. Ma finalmente, essendo vivuto sessanta anni, passò all’altra vita l’anno milletrecento, avendo poco meno che resuscitata la pittura. Lasciò molti discepoli, e fra gli altri Giotto che poi fu eccellente pittore; il quale Giotto abitò dopo Cimabue nelle proprie case del suo maestro nella via del Cocomero. Fu sotterrato Cimabue in S. Maria del Fiore, con questo epitaffio fattogli da uno de’ Nini:

Credidit ut Cimabos picturae castra tenere, sic tenuit vivens; nunc tenet astra poli.

Non lascerò di dire che, se alla gloria di Cimabue non avesse contrastato la grandezza di Giotto suo discepolo, sarebbe stata la fama di lui maggiore, come ne dimostra Dante nella sua Commedia, dove alludendo nell’undecimo canto del Purgatorio alla stessa inscrizzione della sepoltura, disse:

Credette Cimabue nella pintura tener lo campo, et ora ha Giotto il grido; sì che la fama di colui oscura.

Nella dichiarazione de’ quali versi, un comentatore di Dante, il quale scrisse nel tempo che Giotto vivea, e dieci o dodici anni dopo la morte d’esso Dante, cioè intorno agli anni di Cristo milletrecentotrentaquattro, dice, parlando di Cimabue, queste proprie parole precisamente: "Fu Cimabue di Firenze pintore nel tempo di l’autore, molto nobile di più che omo sapesse, e con questo fue sì arogante e sì disdegnoso, che si per alcuno li fusse a sua opera posto alcun fallo o difetto, o elli da sé l’avessi veduto, ché, come accade molte volte, l’artefice pecca per difetto della materia, in che adopra, o per mancamento ch’è nello strumento con ch’e’ lavora, immantenente quell’opra disertava, fussi cara quanto volesse. Fu et è Giotto in tra li dipintori il più sommo della medesima città di Firenze, e le sue opere il testimoniano a Roma, a Napoli, a Vignone, a Firenze, a Padova et in molte parti del mondo, etc.". Il qual comento è oggi appresso il molto reverendo don Vincenzio Borghini priore degl’Innocenti, uomo non solo per nobiltà, bontà e dottrina chiarissimo, ma anco così amatore et intendente di tutte l’arti migliori, che ha meritato esser giudiziosamente eletto dal signor duca Cosimo in suo luogotenente nella nostra Accademia del Disegno. Ma per tornare a Cimabue, oscurò Giotto veramente la fama di lui, non altrimenti che un lume grande faccia lo splendore d’un molto minore; perciò che sebbene fu Cimabue quasi prima cagione della rinovazione dell’arte della pittura, Giotto nondimeno, suo creato, mosso da lodevole ambizione et aiutato dal cielo e dalla natura, fu quegli che andando più alto col pensiero, aperse la porta della verità a coloro che l’hanno poi ridotta a quella perfezzione e grandezza, in che la veggiamo al secolo nostro; il quale, avezzo ogni dì a vedere le maraviglie, i miracoli, e l’impossibilità degli artefici in quest’arte, è condotto oggimai a tale, che di cosa che facciano gli uomini, benché più divina che umana sia, punto non si maraviglia. E buon per coloro che lodevolmente s’affaticano, se in cambio d’essere lodati et ammirati, non ne riportassero biasimo e molte volte vergogna. Il ritratto di Cimabue si vede di mano di Simone sanese nel capitolo di S. Maria Novella fatto in profilo nella storia della Fede, in una figura che ha il viso magro, la barba piccola, rossetta et appuntata, con un capuccio secondo l’uso di quei tempi, che lo fascia intorno intorno e sotto la gola con bella maniera. Quello che gli è a lato è l’istesso Simone maestro di quell’opera, che si ritrasse da sé con due specchi per fare la testa di profilo, ribattendo l’uno nell’altro. E quel soldato coperto d’arme che è fra loro, è, secondo si dice, il conte Guido Novello, signore allora di Poppi. Restami a dire di Cimabue, che nel principio d’un nostro libro, dove ho messo insieme disegni di propria mano di tutti coloro che da lui in qua hanno disegnato, si vede di sua mano alcune cose piccole fatte a modo di minio, nelle quali, come ch’oggi forse paino anzi goffe che altrimenti, si vede quanto per sua opera acquistasse di bontà il disegno.”

Nella foto: un particolare del crocifisso di Cimabue in San Domenico ad Arezzo

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