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"Ho incontrato Caino", oltre duecento persone per Marcello Cozzi a Montevarchi

E’ stata proprio una bellissima serata quella trascorsa lo scorso 16 aprile con Don Marcello Cozzi al Centro Pastorale del Giglio, alla presentazione del suo libro “Ho incontrato Caino”. Con lui il Vescovo di Fiesole Monsignor Mario Meini, il...

E’ stata proprio una bellissima serata quella trascorsa lo scorso 16 aprile con Don Marcello Cozzi al Centro Pastorale del Giglio, alla presentazione del suo libro “Ho incontrato Caino”. Con lui il Vescovo di Fiesole Monsignor Mario Meini, il parroco della Chiesa del Giglio Don Mauro Frasi, il referente del Coordinamento di Libera Valdarno Pierluigi Ermini e Angelo Camardo giovane del Presidio Giovanni Spampinato. Ma soprattutto tante le persone intervenute e tantissimi i giovani, oltre 200 persone che si sono date appuntamento per riflettere su un libro che richiede apertura mentale, l’uscita da facili pregiudizi, per andare a capire il mafioso uomo, come costruisce le sue scelte e cosa accade quando trova il coraggio di iniziare un cammino di pentimento personale fino a farlo diventare testimone di giustizia. Difficile vedere un pubblico così numeroso e attento che per due ore ha ascoltato e interloquito con Marcello Cozzi, ponendo domande anche forti che aprono dubbi e nuove domande. Ma anche Caino ha una umanità, è la Bibbia stessa che apre questa riflessione.

“Rileggendo la Bibbia si capisce che Dio non condanna Caino, da Caino nasce una discendenza da cui nascerà la prima città pronunciata nel Vecchio Testamento – spiega Pierluigi Ermini – e questo apre un percorso nuovo. Dio dà una nuova opportunità a Caino, apre a un suo possibile riscatto”. Riscatto, una parola importante in un luogo come il centro pastorale dove uomini in difficoltà e nel dolore sognano da qui un loro possibile riscatto. Tutto si lega in questa serata e il pubblico lo percepisce ancor più quando Marcello Cozzi prende la parola. E subito ribadisce la sua posizione e quella di Libera: “Sono un prete che da tanti anni sta facendo questo cammino con Libera, accanto ai familiari delle vittime innocenti di mafia, “accanto ai familiari di Abele. Poi ti capita che ti cercano anche gli altri, all’improvviso Caino ti manda a chiamare. E quando capita ciò inizi a vivere una lacerazione dentro. Perché anche lì hai una ricerca di aiuto. Ma non voglio essere frainteso perché per noi il grido di Abele resta sacrosanto. Ma mi portò dentro anche la sofferenza e il tormento di queste persone. Nessun atteggiamento pietistico da parte mia, ma non c’è dubbio che anche i mafiosi sono persone con un nome e un cognome. Noi stiamo assistendo a una crescita della violenza e dall’altra arte assistiamo a una crescente intolleranza da parte dei cosiddetti buoni. Siamo chiamati a rispondere a una domanda: Che cosa vogliamo fare delle persone che sbagliano?”. Parole forti che ti entrano dentro e ti interrogano, rimettono in dubbio le tue convinzioni e anche l’idea di uno stato giustizialista che sempre più si fa avanti nella nostra società, come se queste persone non fossero uomini come noi, ma dei mostri.

“La storia di certo figli di mafiosi non possono non mettermi in discussione – continua Marcello Cozzi -. Ripenso alle parole di don Tonino Bello che durante il funerale del sindaco di Molfetta, assassinato, disse: questi non sono dei mostri ma dei nostri. Dire che sono mostri vuol dire che noi ci dichiariamo perdenti subito. Se entri nelle storie di queste persone inevitabilmente ti poni degli interrogativi, senza volerli giustificare. Quando ti poni nell’atteggiamento di ascolto dell’altro, i graffi ti restano dentro. E se, come mi è accaduto di vedere, queste persone prendono coscienza del male che hanno fatto, ti entra dentro l’inferno con cui convivono. Il tormento che ho visto nel volto di Caino è ciò che restituisce l’umanità di Caino”. Non sono mancate le domande, le riflessioni, un giusto contraddittorio come le parole di Marcello Cozzi non potevano non aprire, ma questo incontro è stato veramente importante perché non si può contrastare un fenomeno come le mafie, se non si impara a conoscere l’uomo mafioso, il contesto anche familiare dove vive e che ci deve spingere ad uscire da una logica giustizialista che spesso diventa un nostro alibi e ci porta ad evitare un impegno personale nella lotta alle ingiustizie che lievitano nella nostra società. Ci evita di capire che anche noi “dobbiamo fare la nostra parte” per costruire una società più equa, solidale, accogliente e giusta.

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