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A sangue freddo: Eliseo Brocherel morto per la libertà. La denuncia: "Il cippo che ne ricorda il martirio venga restaurato"

Questa è la storia di un giovane di appena 23 anni freddato per essersi rifiutato di fornire informazioni su partigiani ed esponenti della Resistenza. In sua memoria, in via Anconetana, venne eretto un cippo

Il 6 giugno 1944 ad Arezzo, il fascista repubblicano Domenico Pancacci, detto “Mencùlo”, attirò in casa sua, in via Anconetana, fuori Porta Trento e Trieste e oltre il Ponte Nuovo, il giovane partigiano Eliseo Brocherel, facendogli intendere che poteva dargli delle “dritte” su come prendere nella rete il tenente Emilio Vecoli, capo della polizia politica fascista e noto torturatore, che era da tempo nel mirino dei partigiani aretini.

A dar retta a Curina, Brocherl aveva l’assenso del comando di Brigata e, dunque, si recò all’appuntamento.

Mencùlo era un bracciante di 34 anni, arruolato nella guardia nazionale repubblicana, un tipo violento al servizio dell’UPI (l’ufficio politico investigativo) dei fantocci aretini di Salò e che, come riferì al processo Giulio Bulletti, era «come il canino di Vecoli e di Abbatecola: dove erano loro era anche lui».

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Eliseo Brocherel in divisa da aviatore

Eliseo Brocherel era un combattente, un partigiano di 23 anni: ricorda Curina nel suo Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, che era già attivo dal 10 settembre 1943, quando con Sante Tani ed altri si recò, più di una volta, presso il campo di aviazione di Arezzo per prelevare materiale bellico e radio trasmittenti. E come già, prima della fine di settembre, sempre con Sante Tani, Pio Borri e Angelo Bruschi provasse a mettere in atto le prime azioni di sabotaggio sul tratto ferroviario Pieve a Maiano-Ponticino; e ricorda del ferimento alla spalla sinistra, che subì per una raffica di mitra tedesco, nel corso di una di queste azioni, a metà di ottobre.

Pancacci non era certo a conoscenza di questa attività clandestina, ma in qualche modo sapeva che Eliseo Brocherel era nel giro dei “ribelli”. 

Quando lo contattò, Mencùlo aveva precise intenzioni: secondo le risultanze del processo al quale fu sottoposto nel novembre 1945 dalla Corte d’Assise Straordinaria di Arezzo, il suo scopo era quello di carpire al giovane partigiano informazioni sul movimento di liberazione e su qualche antifascista. 

L’incontro fu però di breve durata: i due bevvero un bicchiere di vino e quando Brocherel, che forse aveva “mangiato la foglia” decise di andarsene, il Pancacci impugnò il moschetto e lo freddò con due colpi alla schiena.

Poi Mencùlo uscì di casa col moschetto in pugno e lo spianò, minaccioso, contro quelli che erano accorsi agli spari, vantandosi di avere ucciso un ribelle e mandando ad avvertire la milizia. Fra quelli che erano accorsi c’era anche Paolo, fratello della vittima, che sbucò disarmato da dietro al Pancacci e ingaggiò con l’assassino una furibonda lotta fino a riuscire a disarmarlo e ad atterrarlo colpendolo alla testa con un pezzo di mattone. Col fucile in mano, raccontò Paolo al processo, avrebbe potuto fare giustizia sommaria, ma poiché sopraggiunsero dei soldati tedeschi, che gli strapparono il fucile di mano, e una ventina di militi fascisti, non gli rimase che mettersi in salvo prendendo la via della montagna.

Mencùlo venne portato in ospedale e, pochi giorni dopo, scappò al nord nell’eroica ritirata di tutta la feccia fascista cittadina lasciando la città nelle mani dei tedeschi.

Venne arrestato dalla polizia dopo la liberazione di Arezzo, quasi un anno dopo il suo delitto, il 12 maggio del 1945 quando fece rientro dal nord Italia.
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Sul suo capo gravavano pesanti imputazioni: 

«collaborazione con il tedesco invasore per avere nella sua qualità di dipendente della g.n.r. successivamente al 9 settembre 1943 collaborato attivamente con i tedeschi favorendone i piani politici e militari col partecipare a numerose azioni di rappresaglia e rastrellamento fra le quali quella effettuata a Vallucciole (ove venne ucciso il giovane studente Pio Borri) ed in quel di Capolona con l’effettuare perquisizioni, sequestro di persone ecc. sempre in funzione della sua attività politica; omicidio aggravato, per avere il 6 giugno 1944 in Arezzo in via Anconetana, cagionato la morte con premeditazione e con l’aggravante di avere agito per futili motivi, del giovane Eliseo Brocherel, sparandogli contro due colpi di moschetto che lo uccidevano; violenza privata aggravata per avere nel mese di marzo 1944 in Ville Monterchi costretto Angiolo Virtuosi, mediante minaccia esercitata con armi a subire una perquisizioni nella persona; sequestro di persona per avere nelle medesime circostanze, costringendo a non muoversi dalla casa di Giovan Battista Mannucci, privato Angiolo Virtuosi della libertà personale; sequestro di persona per avere in Arezzo, costringendolo a seguirlo fino negli uffici dell’Ufficio Politico Investigativo della milizia ove veniva trattenuto, privato della libertà personale Giulio Bulletti; violenze aggravate per avere il 6 giugno 1944 costretto Paolo Brocherel, mediante minaccia col moschetto a non avvicinarsi al cadavere del fratello Eliseo».

Al processo in Corte d’Assise Straordinaria, Mencùlo si difese sostenendo di aver sparato a Brocherel perché questi lo aveva minacciato di pesanti ritorsioni se la sera stessa non avesse depositato 20.000 lire presso il camposanto di Staggiano, ma la circostanza venne smentita dal brigadiere della PS Guido Ricci che, a precisa domanda del presidente della Corte, testimoniò che durante gli interrogatori il Pancacci non fece alcun accenno a una circostanza del genere.

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Ammise, il Pancacci, la sua partecipazione al rastrellamento di Vallucciole nel quale venne assassinato Pio Borri, ma da bravo “ragazzo di Salò” addossò tutta la responsabilità ad altri, che tutti sapevano autori di quel delitto: il tenente Vecoli, il maresciallo Abbatecola e il loro aiutante, il brigadiere Giovacchino Solito (gli ultimi due fucilati a suo tempo nel nord Italia).

Negò ogni responsabilità nella bastonatura dell'imbianchino Bulletti e nell’episodio di Casa Rossi a Bagnoro, in contrasto con quanto riferì l’involontario protagonista, che era stato perfino costretto a ripulire dal proprio sangue il pavimento del locale nel quale era stato torturato.

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La Corte d’Assise Straordinaria di Arezzo, nel giorno della sentenza, ricevette una lettera minacciosa, scritta a stampatello e firmata da un fantomatico «25o Gruppo Nèmesi» che diffidava «la Corte a non pronunciare condanne a morte contro alcuno dei cosidetti imputati, pena di subire la stessa sorte».

Una minaccia senza esito perché, nella seduta della CAS del 12 novembre 1945, Domenico Pancacci venne condannato a morte per fucilazione alla schiena e alla confisca di tutti i suoi beni a favore dello Stato.6 La Nazione del popolo-2

Interpose appello e avanzò domanda di grazia, ma la Corte d’Assise Speciale di Firenze prima e la Cassazione poi, confermarono la sentenza. Allora si rifugiò in una nuova domanda di grazia.

Pancacci non venne giustiziato. 

Poi vennero i generosi provvedimenti di clemenza dello Stato democratico nel 1946 e nel 1949 e Mencùlo, come troppi altri, la sfangò. 7 La Nazione del popolo-2

Nel luglio 1964, ventennale della Resistenza, al partigiano Eliseo Brocherel venne dedicato un cippo in via Anconetana, nel luogo dove era stato assassinato ad appena 23 anni. Ad inaugurarlo, assieme alle associazioni partigiane, c’era il compianto sindaco Aldo Ducci.

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12 luglio 1964, inaugurazione del cippo intitolato alla memoria di Brocherel 

Adesso quella stele, che segna la memoria di un partigiano combattente, caduto per mano fascista, è ridotto in uno stato che fa vergogna a questa città.

Poco importa a chi spetti restituirgli il decoro che merita, né può valere un contorsionismo burocratico per rimpallare le competenze: Arezzo è una provincia decorata con la Medaglia d’Oro per meriti partigiani ed un Comune decorato con quell’Argento per le proprie vittime civili. 

Lo stato in cui versa quella stele è un grido di denuncia che deve risuonare nelle orecchie di chi, assieme alla cosa pubblica, deve occuparsi della dignità della propria storia. 

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Il cippo, nelle condizioni in cui versa oggi

Alcuni amministratori hanno scelto di celebrare le ricorrenze del 25 aprile, data della liberazione nazionale e quella del 16 luglio, data della liberazione del capoluogo, con una cerimonia al cimitero del Commonwealth di Indicatore: una scelta legittima, anche perché, come dicono gli organizzatori (LiberAperta), “Nessuno vuole togliere meriti alla Resistenza, alle lotte partigiane, alle lotte di popolo che hanno permesso democrazia e diritti per il popolo italiano, ma spesso ci dimentichiamo degli alleati morti per la nostra Libertà”

Resta da domandarsi se, quando entrano nel Commonwealth War Grave di Indicatore questi amministratori si guardino attorno. Se si accorgano di come il Regno Unito conserva la dignità e la memoria di quei suoi 1232 caduti. 

E se non provino un po’ di vergogna.

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Arezzo, Indicatore, veduta del “Commonwealth War Grave” 

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